Federmeccanica raddoppia. Dopo aver impostato e concluso un (innovativo) contratto nazionale di lavoro firmato unitariamente da Fim-Fiom-Uilm all’insegna della parola d’ordine del «Rinnovamento», ora è arrivato il momento dell’«Impegno». Sta per uscire infatti con questo nome un libro-manifesto dell’industria moderna redatto dall’associazione e vagliato da un gruppo di economisti/storici come Stefano Palead, Giuseppe Berta, Enzo Rullani e Daniela Del Boca. Passata la Grande Crisi, la rappresentanza del cuore dell’industria manifatturiera italiana si interroga sulle sfide che avanzano e sui compiti dell’impresa. Le sfide possono essere sintetizzate così: a) la natura dirompente della digital transformation che «sta creando un solco profondo e inquietante tra passato e futuro» (Rullani); b) la ri-personalizzazione del mondo della produzione necessaria per guidare automatismi e sistemi di relazione sempre più complessi.
L’impresa italiana se vuole far fronte a questo nuovo scenario — sostiene Federmeccanica —deve essere capace di reinventarsi, non accontentarsi di aver dimostrato resilienza nei confronti della crisi, non appagarsi della riorganizzazione che pure ha portato avanti controvento, nemmeno bearsi dei successi ottenuti con l’export, ma creare le condizioni per restare competitiva nel medio periodo. Certo, ci sono delle condizioni che per semplificare potremmo chiamare di carattere ingegneristico e che sono riconducibili alla cultura 4.o, serve però estrarre valore anche dalla collaborazione tra impresa e lavoro. Questa è l’impostazione data dal presidente Alberto Dal Poz e scorrendo i io punti del manifesto emerge con chiarezza: collegare salari e produttività, investire sulle persone, motivare i giovani, coinvolgere i lavoratori nella vita di impresa.
«Dieci snodi che rappresentano un’idea di società» strettamente collegata a una nuova dimensione del fare impresa, annota Palead. Per il capitalismo italiano «Impegno» è sicuramente un’iniezione di adrenalina, per la Confindustria uno stimolo che cade in un momento di grande preoccupazione per gli equilibri politici del Paese. La rappresentanza non può certo risolvere il rebus creatosi con i risultati del 4 marzo pero può dare un messaggio: la comunità dell’impresa e del lavoro decide di fare il suo, di portarsi avanti. Non è la vecchia alleanza dei produttori vagheggiata a più riprese nel Novecento, sottolinea Berta e del resto il contesto economico e culturale è mutato in maniera radicale. Forse evoca più la cultura della sussidiarietà, laddove intermediare non vuol dire coltivare il diritto di veto ma al contrario costruire soluzioni dal basso.