Il prossimo governo, qualunque esso sia, dovrà assumere decisioni importanti se vogliamo che i deboli segnali di ripartenza economica di quest’ultimo anno e mezzo non si squaglino come neve al sole.
Alcune fondamentali scadenze attendono l’Italia e l’Europa in un quadro geopolitico di grande turbolenza. Sono passaggi che sarebbe utile affrontare guardando a come nei territori sta mutando il DNA del fare impresa, disegnando le macro-aree di una nuova geografia produttiva che sempre più mi pare emergere nel paese. La modesta crescita di PIL, occupazione e investimenti non è soltanto l’esito di una congiuntura favorevole, ma l’espressione di una trasformazione strutturale che non riguarda solo l’impresa ma lo stesso modello di sviluppo economico-sociale di cui per ora vediamo solo la punta dell’iceberg.
In altri microcosmi ho usato il concetto di capitalismo intermedio per provare ad inquadrare questa trasformazione. È una suggestione che però mi pare utile per comprendere ciò che nelle economie territoriali sta oggi cambiando, da due punti di vista. In primo luogo, come giustamente ci ricorda Giuseppe Berta, il nostro rimane un capitalismo imprenditoriale trainato da imprese internazionalizzate ma privo di global companies, posizionato su nicchie di fornitura ad alta qualità parte delle grandi filiere internazionali. Che abilmente abitiamo e usiamo, ma non guidiamo. Un capitalismo che procede innovando i processi, non rivoluzionando i codici sorgenti.
Questa collocazione nelle nuove geografie del lavoro tra macroregioni dell’economia mondiale, si riflette in un modello di sviluppo per il quale ormai da un quindicennio almeno, una quota crescente del PIL italiano viene prodotta all’interno di una geografia dello sviluppo disegnata dal triangolo Mi-Ts-Bo e da poche altre agglomerazioni urbane produttive, l’area torinese e alcune isole industriali nel centro-sud. Una geografia economica ad arcipelago, una rete i cui nodi sono connessi da corridoi infrastrutturali e funzionali. È questo lo spazio di ciò che chiamo capitalismo intermedio. In esso convivono filiere saldamente agganciate alle dinamiche di una industria ormai europea con economie in sofferenza; società urbane caratterizzate da economie e culture politiche cosmopolite e periferie periurbane o provinciali estenuate dall’accelerazione sociale del turbo-capitalismo globale.
Il capitalismo intermedio non è dunque un modello in continuità con il passato: non è l’adattamento delle vecchie economie territoriali, delle società locali affluenti e di un ceto medio dell’impresa molecolare. I nuovi imprenditori e ceti medi terziari, le esperienze di innovazione sociale che si possono incontrare percorrendo le città e i territori da Nord Est a Nord Ovest sono espressione di un nuovo tipo di società in cui polarizzazione e tenuta dei fondamentali della coesione sociale convivono. Gli stessi risultati elettorali, che non hanno diviso soltanto il Nord dal Sud, ma le città (i centri) dalle (nuove) periferie, mi sembra esprimano le contraddizioni di nuovi rapporti sociali e di nuove forme di economia che stanno emergendo.
Una agenda del capitalismo intermedio deve perciò provare a mettere a fuoco alcune questioni di fondo, partendo dall’idea che le politiche debbano accompagnare l’emergere di un nuovo “assemblaggio” produttivo, economico e sociale, di una nuova industria che nelle pieghe di questi dieci anni di crisi sta già emergendo, ma che ad oggi è ancora troppo ristretta.
Ci sono dunque quattro grandi processi di innovazione su cui agire. Il primo riguarda il nuovo mix produttivo che nei prossimi anni caratterizzerà l’industria italiana. Accanto alla tenuta delle filiere forti (meccanica, agro-food, ecc.) in Italia ci sono le basi per far crescere quelle che verosimilmente saranno le industrie dei prossimi venti anni: l’industria legata alla soluzione dei problemi di sostenibilità ambientale e della vita civile nei grandi agglomerati urbani diffusi (green economy, smart cities, ecc.) e le industrie della cura e del benessere del corpo e delle menti dell’uomo (scienze della vita, ecc.).
In Italia c’è un grande tema, ancora troppo poco affrontato, che è quello dell’industrializzazione dei grandi servizi come nuova forma di made in Italy. Il secondo processo da inquadrare è la promozione di un nuovo modello di welfare community fatto dell’intreccio tra estensione delle pratiche di welfare aziendale e la trasformazione dei sistemi di welfare territoriali e del diffuso mondo del privato sociale, oggi sempre più portato ad assumere una configurazione imprenditiva e impegnato nel definire un proprio modus vivendi con la potenza della finanza, interessata a sviluppare forme di investimento “paziente” sui temi della coesione sociale. Terzo grande processo riguarda le modalità con cui il nuovo mix produttivo che caratterizzerà il capitalismo italiano riuscirà a metabolizzare il salto tecnologico del “4.0”; nella convinzione che la vera sfida sia gestire l’estensione della rivoluzione tecnologica dall’industria 4.0 all’impresa 4.0 alla società 4.0. La trasformazione digitale non è un processo che si possa esaurire dentro le mura delle imprese, ma sempre più comprende la capacità delle imprese di creare ragnatele del valore che incorporano gli utenti-clienti attraverso meccanismi di piattaforma.
Infine, capitalismo intermedio indica un processo di modernizzazione e crescita di nuove forme di società di mezzo e di intermediazione degli interessi e soprattutto di una nuova generazione di autonomie funzionali (università, incubatori, parchi scientifici) che sappiano accompagnare la crescita del nuovo mix industriale connettendosi con i grandi poli globali dell’innovazione scientifica e tecnologica. Cruciale sarà dunque che i nuovi decisori sappiano accompagnare l’avvio di un ciclo di “industrializzazione” del capitalismo di territorio conservandone tuttavia il principale vantaggio competitivo, ovvero l’essere fondamentalmente espressione di “grandi imprese artigiane ipertecnologiche”. Operazione sociale e politica delicatissima; ma ineludibile.