Per tentare di capire meglio l’andamento e le trasformazioni dell’economia reale sono di grande utilità le tendenze del traffico dei tir in autostrada. Nei giorni scorsi la Cgia di Mestre elaborando i dati Aiscat ha confezionato uno schema che paragona i volumi tra le tratte del Nord- ovest e quelle del Nordest ed è arrivata alla conclusione che c’è una differenza del 60% a favore dell’oriente. Una dimostrazione ulteriore di come il baricentro dell’industria italiana si sia spostato: al vecchio triangolo industriale novecentesco Torino/Milano/Genova si è ormai sostituito il nuovo che possiamo perimetrare tra Varese/Bologna/Treviso. Per valutarne tutte le implicazioni vale la pena ricordare come nel Dopoguerra il Pil pro capite del Piemonte è stato superiore a quello del Veneto anche di 50 punti e che l’avvicinamento è avvenuto solo nella prima decade del 2000.
Lo spostamento dei pesi verso oriente è legato sicuramente alle differenti velocità della ripresa ma anche ad alcune trasformazioni strutturali della nostra manifattura come la prevalenza delle filiere, il trend delle esportazioni ma anche quello delle importazioni di beni intermedi, lo spazio che sta conquistando l’ecommerce. La prevalenza del Nordest sul Nordovest non è quindi solo dovuta a fabbriche che vanno a pieno regime, produzione industriale e incrementi nettamente più alti (almeno 3 punti), prospettive occupazionali più sicure, ma anche a un modello più avanzato in cui manifattura e logistica tendono a integrarsi e nel quale conta sempre di più la calamita rappresentata dal cosiddetto «sistema tedesco allargato» e dalle catene internazionali di fornitura. Nel gennaio-marzo ‘18 il traffico dei tir sull’autostrada Udine-Tarvisio è cresciuto del 9% rispetto allo stesso periodo del ‘17, sulla Venezia-Belluno si registra +8%, sulla Bologna-Padova +6%. E numeri analoghi, attorno all’8% in più, sono segnalati al Brennero. In generale sulla A4 in direzione Trieste sembra essere tornati al periodo precrisi e agli anni prima dell’inaugurazione del Passante di Mestre, con il trasporto su gomma che grazie alla sua struttura molecolare è capace di servire meglio un’economia centrata sull’interazione tra case madri e fornitori, tra piattaforme logistiche e consumatori.
Sono sufficienti queste tendenze per parlare di due Nord? E utilizzando i dati del 4 marzo si può tentare di leggere economia e politica assieme? Per rispondere bisogna abbracciare una visione dello sviluppo economico non lineare, il Pil non si spalma omogeneamente neanche nel ricco Nord. Sicuramente il Piemonte, pur presentando differenze al suo interno — tra Torino e il Cuneese ad esempio — vede addensarsi le maggiori difficoltà nella fascia che da Biella scende verso il Tirreno. Non è poi un caso che alcune delle più acute crisi aziendali (Embraco, Italiaonline, Comdata e Comital) riguardino proprio questa regione. Ma soffre anche l’Appennino emiliano pur nel contesto di una regione decisamente in salute così come le zone interne dell’intero Settentrione restano indietro rispetto a quelle limitrofe all’asse autostradale. Nei giorni scorsi, peraltro, è stata lanciata una nuova iniziativa che si chiama Confindustria Montagna, proprio con l’obiettivo di stimolare lo sviluppo delle terre più vicine all’arco alpino. E quanto alla politica, se la divaricazione apertura vs chiusura può servire a livello Paese per semplificare lo spostamento degli orientamenti elettorali, al livello di singolo territorio le differenze sfumano. Alle urne l’imprenditore si comporta più da cittadino comune che da operatore economico.
Emilia, Veneto e Lombardia sugli scudi dunque. I flussi delle merci parlano chiaro ma anche il mercato del lavoro spinge le persone a intensificare la mobilità. Ancor più intrigante è la convergenza degli orientamenti culturali. Il Veneto anarchico, insofferente del ruolo dello Stato, è sempre meno distante dall’Emilia di cultura cooperativa e orientata a guardare con favore alla regolazione amministrativa. La penetrazione della Lega in contesti come quello di Sassuolo a forte densità industriale, solo per fare un esempio, sta a dimostrarlo e ci fa dire che le trasformazioni del modello produttivo si accompagnano agli slittamenti culturali. In questo contesto i conflitti capitale-lavoro sono destinati a perdere di intensità, la fabbrica del «nuovo triangolo» è comunità di interessi sia nella versione veneta che in quella emiliana e gli artigiani che lavorano come fornitori non si distinguono dagli operai addetti ai sistemi. La cosa singolare, e paradossale assieme, è che i territori più vivaci sono quelli che stentano a trovare i tecnici che cercano: è il fantasma del mismatch , del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro che resta una dannazione in un Paese con le autostrade zeppe di tir e il 38,2% di disoccupazione giovanile.