In Italia i dibattiti servono per riempiere la carta stampata e quella virtuale. Meno per fare politiche di sistema e ancor meno per fare riflessioni personali. Ciclicamente, ad esempio, si scatena il dibattito sulla lingua inglese all’università. Tutti diventano, improvvisamente, membri dell’Accademia della Crusca: “salvate il soldato Italiano”, potrebbe essere lo slogan. Ci sono parole, però, che in italiano suonano strane, non riescono a sintetizzare il pensiero. Prendiamo la parola storytelling. In Italiano si può tradurre in narrazione, raccontare storie. Peccato che la traduzione manchi di ritmo, sia assente di un movimento connaturale, ci rimandi alle storie che da bambini mamma e papà ci raccontavano. Come per la querelle sull’esclusività dell’inglese in alcuni corsi del Politecnico di Milano, abbiamo la necessità che la nostra lingua abbia degli innesti fruttuosi con altre lingue: l’inglese, la lingua del mondo, in primis. E quindi, largo allo storytelling. In una recente intervista lo scrittore americano John Freeman, si è soffermato su questa parola offrendo allo storytelling una dimensione interessante:
“la capacità di fare riflessione raccontando storie che contengano tutte le contraddizioni e le varietà di esperienza della vita ci aiuta ad assorbire il mondo.”
Fare storytelling non vuol dire costruire storie di inventate, anzi. Si può partire nel raccontare la vita reale per comprendere la società di oggi e fare analisi su quella di domani. E’ quello che compie un giornalista, di matrice economica, Federico Fubini, nel suo ultimo libro “La maestra e il camorrista”. Da un giornalista che scrive quotidianamente di PIL o spread, non ti aspetteresti un libro costruito sullo storytelling. Si tratta di una bella sorpresa che permette al lettore di scivolare dentro alle righe e, senza accorgersene, arrivare alla fine del libro avendo la possibilità di meglio focalizzare perché nel nostro Paese l’ascensore sociale si è bloccato, o meglio, è partito solo in rarissimi casi. Accanto al tema del racconto, il libro di Fubini è meritevole perché ci mostra come il giornalista può non solo essere un’osservatore, ma può diventare un “agitatore sociale”. E’ quello che ha fatto Fubini: prendersi la briga di andare in giro per le scuole del Sud constatando quanto lavoro sul campo vi sia da fare e, allo stesso tempo, inventarsi percorsi formativi che tentano di modificare la rotta.
Perché ri-partire dalla scuola
La scuola non è solo il luogo dove gli alunni studiano, è il luogo dove crescendo si fanno le prime domande, si compiono le prime scoperte verso il mondo. E’ il luogo in cui si rafforza la strumentazione per vivere, non solo per sopravvivere. Insegnare a sopravvivere ha molto a che fare con il lavoro che gli studenti prima o dopo faranno. Insegnare a vivere ha a che fare con la persona nella sua completezza. Educare alla sopravvivenza implica che ci salvi da soli, educare alla vita implica che ci si salvi insieme, indicano Miguel Benasayag e Gerard Schimit nel loro libro “L’epoca delle passioni tristi” (Feltrinelli). Se la quantità di intelligenza fornita dalla scuola fosse solo legata alle informazioni, in futuro i robot saranno più bravi di noi. Non ci sono dubbi in merito. Se la quantità di intelligenza è costruita per rendere lo studente consapevole che i problemi si risolvano con il contributo di più persone, i robot saranno degli ottimi assistenti per risolvere alcuni problemi del nostro mondo. Probabilmente questo è stato il tarlo che ha mosso Fubini in questo suo viaggio-racconto: la scuola è troppo importante perché sia lasciata alla sola gestione degli insegnanti. La complessità che ci pervade richiede il sostegno di chi sta fuori da questo luogo e ha ben chiaro il ruolo che ancor più oggi ha la scuola all’interno della nostra società. Fubini compie degli esperimenti, si muove a cuore aperto, andando in alcune delle scuole più degradate d’Italia. Quelle dove la legalità convive con l’illegalità. Dove la furberia è sinonimo di autorevolezza. In questi posti, come la scuola di Mondragone (provincia di Caserta) o di Carbonara (provincia di Napoli), il metro di misura della scarsissima autostima verso un futuro migliore, viene calibrata attraverso una serie di test comparati con altre scuole del Nord, da Milano a Padova. Il quadro è impietoso, e soprattutto preoccupante. Le differenze sono lasciate alle percentuali, a semplici numeri che spiegano meglio di tante analisi perché, dice Fubini,
“la sfiducia in ciò che ti circonda si trasforma in un veleno sottile che contribuisce a paralizzare l’ascensore sociale dal basso verso l’alto”.
La Firenze di ieri e quella di oggi
Se il tema trova delle conferme nelle attuali giovani generazioni, le prove di quanto la cinghia di trasmissione abbiano poco funzionato in Italia, Fubini le va a scoprire sin dal 1427. Siamo in pieno Rinascimento. Nelle dichiarazioni dei redditi di quell’anno compaiono cinque Antinori, quelli della casa vinicola per intenderci, che facevano già parte del venti percento più ricco della città. Ai giorni nostri, quegli stessi Antinori, hanno avuto la capacità di aumentare il loro patrimonio e di rimanere dentro alla cerchia dei fiorentini più ricchi di oggi. I Mannucci, altra famiglia fiorentina, sempre presenti nelle dichiarazioni dei redditi di allora, invece, sono rimasti più o meno all’interno della “casta” del ceto medio: facevano fatica a campare nel Rinascimento, fanno fatica ancora oggi, nonostante gestiscano una bottega artigiana presente nel centro di Firenze. E’ uno dei tanti esempi che Fubini porta alla luce per dimostrarci come chi nasce ricco in Italia ha una alta probabilità di ritrovarsi altrettanto ricco in futuro. Questo assunto vale anche dopo molte generazioni. Nel tempo recente, non sempre è stato tutto fermo. In Italia la mobilità sociale negli anni ’80 si è mossa. Ha toccato il suo apice nel 1992. Da quel momento in poi la caduta è stata tanto stabile quanto inesorabile. Un dato interessante che emerge è come non solo la famiglia di provenienza sia in grado di condizionare il futuro dei suoi componenti, ma l’ambiente in generale sia un fattore decisivo per creare opportunità di crescita:
“Dire dunque che i figli dei ricchi restano ricchi perché ereditano i soldi, privilegi, accesso alle migliori università e alle occasioni di lavoro non rende l’idea, neanche quando è vero”.
In un test, che ricorda molto il famoso “dilemma del prigioniero” creato negli anni cinquanta da Albert Tucker, come problema di teoria dei giochi, Fubini crea una situazione in cui riesce a tastare, attraverso i Pokemon, la fiducia dei bambini di una scuola elementare. Anche in questo caso il risultato propone un contesto dove la fiducia individuale vale più dei quella collettiva, con una aggravante: avere una fiducia superiore nel prossimo, oltre che in se stessi, è anche indice predittivo di un maggiore successo nella vita. Se l’assunto deve essere quello che la scuola non è un posto dove costruire “macchine” per il futuro, avere condizioni di contesto – dove le regole sono definite e rispettate – aiuta il bambino a crescere come persona e avere maggiori opportunità economiche. In questo quadro, le bambine sono, sia al Sud che al Nord, più predisposte, se messe nelle condizioni, a cogliere le diverse chance. Come dire: un investimento sulle donne ha un ritorno maggiore e più certo.
Due enigmi
Il libro, nella prima e nella quarta di copertina, contiene due enigmi: il primo è legato al titolo – “La maestra e il camorrista” – che non rimanda immediatamente all’oggetto dell’indagine compiuta dall’autore; il secondo ad una foto dell’autore con una carrozzina in un parco. Se il primo enigma lo si svela nei primi capitoli, attraverso i test compiuti nelle scuole del Sud, il secondo emerge negli ultimi capitoli in quella che Fubini chiama uno dei più grandi problemi che oggi l’Italia si trova ad affrontare: una denatalità tra le più basse al mondo che si incrocia con un invecchiamento della popolazione tra i più alti al mondo. La sua tesi è che un alto tasso di risparmio delle famiglie, tipico atteggiamento del nostro Paese, sia in qualche modo collegato ai pochi bambini che nascono e all’immobilismo prevalente tra i ceti. Sostenere che l’alta patrimonializzazione dei nuclei familiari sia anche causa del nostro voler vivere con tanti vecchi e pochi giovani, può essere difficile da ammettere, ma è terribilmente vero. Chi molto risparmia ha poca propensione al futuro. Certo è che una tesi di questo tipo apre un dibattito su come i nostri soldi dovrebbero essere investiti soprattutto a livello famigliare più che a livello statale. Un monito chiaro per tutti noi che chiediamo allo Stato politiche per la famiglia. Forse gli asili nido o le scuole non vanno inaugurate dallo Stato, quanto dalle singole famiglie. Con ciò, viene alla mente una frase di Pietro Calamandrei contenuta in quel suo mirabile libro – profetico fin dal titolo – “Lo Stato siamo noi” (Chiarelettere):
“Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale.”
Titolo: La maestra e il camorrista
Autore: Federico Fubini
Editore: Mondadori
136 pp; 17,50 Euro