Con Luca Romano commentiamo l’ultimo libro scritto da Giuseppe De Rita, fondatore ed ex Presidente del Censis. “Dappertutto e Rasoterra” è un affresco degli ultimi 50 anni di vita sociale, politica ed economica italiana. Il libro dopo una corposa premessa, riporta le introduzioni alle considerazioni generali che annualmente il Censis pubblica dal 1967. Fino al 2016, Giuseppe De Rita ha firmato il Rapporto del Censis.
Vignaga – Il rapporto del Censis è stato in questi 50 anni una delle principali bussole per capire dove stava andando il Paese. La lettura del libro di De Rita ti permette di mettere insieme i pezzi e costruire un film della storia dell’Italia. Un testo prezioso perché l’analisi ti aiuta ad andare oltre i ricordi che ognuno di noi conserva. Ricordi vissuti o perché letti. A questo proposito, leggendo il libro, mi sembrano cruciali gli anni ’70, per due motivi: la nascita dei distretti industriali; la creazione delle basi di una società che tende unicamente alla soggettività. Nel mio caso, non avendoli vissuti gli anni ‘70, perché appena nato, il mio ricordo si soffermava sul fatto che venisse dopo il ’68, un decennio tormentato dal terrorismo e culminato con la marcia dei quarantamila di Torino del 14 ottobre 1980. Quello che De Rita ci consegna è, invece, un decennio cruciale non tanto per la “battaglia politica”, quanto per la vera struttura economica che poi nei decenni successivi si è dispiegata. Il paradigma come – lui lo chiama – “della crescita dal basso”, che ha avuto nella creazione dei distretti industriali il suo motore, si è solidificato in quel momento. Sembra quasi che come nel Medioevo sono nate le prime forme del movimento comunale, gli anni ’70 siano stati gli anni dove la società passata “da chiusa ad aperta” ha ritrovato, sotto il profilo economico, proprio in questo architrave storico-culturale la sua naturale prosecuzione. Sono questi gli anni in cui le aziende cominciano ad internazionalizzarsi. Contemporaneamente nasce quella soggettività spinta, tesa a privilegiare i desideri più che i bisogni che oggi si è attualizzata appieno con il forte senso di deresponsabilizzazione sociale che stiamo vivendo. Non a caso esce nelle sale italiane, proprio nel 1977, “La febbre del sabato sera” che in Italia ha un particolare successo. Lì nasce la “cetomedizzazione” che ha reso tanto celebre De Rita.
Romano – Gli anni Settanta rappresentano la massima capacità di osservazione della realtà sociale del Paese da parte di Giuseppe De Rita in modalità radicalmente altre da quelle che egemonizzavano da tempo la scena. Il suo instancabile esercizio di individuazione delle condensazioni sociali dell’economia porta a rappresentare la straordinaria varietà e vitalità dei territori senza se non contro le ipoteche ideologiche che segnavano quel periodo. “Cespugli” di laboriosità, sommerso produttivo, distretti e proliferazione del capitalismo molecolare sono del tutto estranei, che so, alla cultura conflittuale di sinistra che domina la narrazione degli anni Settanta. In un meraviglioso libro autobiografico una testimone di eccellenza come Rossana Rossanda lo dice espressamente: mentre noi guardavamo alla grande fabbrica, al triangolo industriale, alla FLM e al conflitto come centro del mondo, De Rita aveva compreso che lo sviluppo stava andando da un’altra parte, il centro è vuoto e i margini vibrano di grandi energie sociali. Questo sviluppo dal basso, con protagonisti milioni di piccoli imprenditori e di lavoratori rappresenta un po’ un mistero, proprio tra la dilatazione del ceto medio affluente e l’affermarsi della cultura sessantottina del desiderio, dello stravolgimento consumista del popolo diagnosticato magistralmente da Pasolini, fino all’edonismo del sabato sera. Eppure è il frutto di una lunga deriva del Paese, uno spirito operoso che ha permesso di uscire dalla miseria e dai drammi dell’emigrazione ripresa nel secondo Dopoguerra.
Vignaga – De Rita è visto come un “continuista”. Uno che vede la società italiana come una linea continua che non ha mai profonde rotture. Una società dello scambio – sorretta dai territori, dal policentrismo –che ha il suo punto forte nella non organizzazione. Ritorna il nostro passato: “Non siamo una nazione fatta, come la Francia, da quaranta re in mille anni, siamo una società basata per secoli, e ancor più oggi, su tanti luoghi, tanti processi, tanti soggetti (imprenditoriali, sociali, istituzionali).” Non a caso – questo non lo dice De Rita – il referendum del 4 dicembre dello scorso anno, che era un passaggio cruciale verso un Stato più forte, è andato come è andato, mentre il referendum lombardo e, soprattutto, quello veneto hanno avuto altri esiti. Nella pancia degli italiani, al netto degli errori renziani, non volevano dare allo Stato una centralità che non abbiamo mai avuto. In questi 50 anni, poi, la società è profondamente cambiata, le istituzioni sono rimaste intatte, ferme. Quello che non mi convince in De Rita è considerare questa società molecolare “un’opportunità grande, non una penalizzazione” in cui i nostri talenti ci permetterebbero una “ricchezza di germinazione dal basso che è sempre stata tipica della nostra società.” Mi sembra una dichiarazione più volta all’ottimismo della volontà che al pessimismo dell’intelligenza, per dirla alla Gramsci.
Romano – Quello che dici sul continuismo di De Rita è assolutamente vero. Alcuni giorni fa discutendo con Federico Fubini sul suo ultimo libro lui parlava esplicitamente di vero e proprio conservatorismo a proposito del fondatore del Censis. Perché una capacità così penetrante di osservare la vitalità dei fenomeni sociali si accoppia a questa sorta di conservatorismo nelle modalità di governo istituzionale dei cambiamenti? Penso che questo dipenda da una convinzione culturale profonda di De Rita. Le relazioni che liberamente istituiscono l’agire sociale delle persone devono rimanere “consustanziali” alla forma di governo politico che per esse è più congeniale. C’è uno schema binario e interdipendente, tipico del cattolicesimo rosminiano, in cui “sociale” e “politico” sono strettamente collegati. Per esso vale l’esperimento degasperiano, una democrazia governante, con una sua architettura istituzionale, che si muove per rafforzare i centri autonomi della condensazione sociale che genera fatti economici, si interfaccia con una democrazia territoriale dei soggetti sociali. E’ uno schema molto raffinato, di altissima scuola, in radicale divergenza con il decisionismo politico che ha imperversato da noi. Capisco l’obiezione sul rischio di sopravvalutazione del molecolare sulla grande cultura industriale. Ma penso che in De Rita ci sia un pensiero diverso, ovvero di primato del sociale sull’economico e della relazione orizzontale sul potere verticale. La sua intrinsecità alla vicenda di Adriano Olivetti lo testimonia: l’industria, la grande industria compresa, è soprattutto una costruzione sociale e culturale per essere, al meglio, agente economico. Questa impostazione la vedi anche nel lessico di De Rita in cui non appaiono mai il “mercato”, il “potere”, le “riforme” ma sempre figure di costruzione collettiva di relazioni interpersonali. Pertanto vede una pluralità di energie sociali “originarie” che precedono l’ordine della legge e l’esercizio del potere politico. E’ una visione polifonica, che valorizza il ruolo dei corpi intermedi come nodi di condensazione sociale.
Vignaga – De Rita è sempre stato prodigo di metafore. Per ogni rapporto, anche con obiettivi massmediali, creava attorno a una o due parole la sintesi perfetta dell’anno che andava a commentare. Quella che già all’epoca mi aveva colpito, e riconfermo, è “la società mucillagine”. Era il Rapporto del 2007, quindi prima della grande crisi, quando De Rita, con mirabile capacità previsionale, evidenzia tre realtà: una che diventa una poltiglia di massa dove le pulsioni, le emozioni, le esperienze sono l’impasto naturale; una che inclina verso una progressiva esperienza del peggio dove il senso di responsabilità latita; una che, in modo più o meno cosciente, non accetta più tensioni e diversità di destino sociale. Una poltiglia di massa che tenuta insieme “da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni” si traduce perfettamente nella metafora della mucillagine che galleggia in un mare in cui non si vede più il fondo. Ho come l’impressione che, pur usciti dalla crisi profonda, sotto il profilo economico, la società – quindi noi – siamo fermi a quella coltre di mucillagine che ci impedisce di dare un senso vero alle cose che viviamo.
Romano – Qui tocchi un punto nevralgico. De Rita ritiene che la crisi della società italiana inizi negli anni Ottanta. Lui si sente doppiamente orfano. Lo sviluppo di cui era stato insuperabile indagatore e narratore, infatti, aveva avuto una preparazione negli anni della Svimez e nei suoi rapporti di discenza da Giorgio Ceriani Sebregondi. L’esplosione del vitalismo dei territori, in un certo senso era stato preparato da “infrastrutture silenti”, da un capitale sociale tacito che aveva rappresentato il fondamento generale su cui fertilizzavano tante iniziative individualistiche. La mucillaggine, la disgregazione delle condensazioni sociali di territorio, è quindi effetto di un duplice abbandono, della capacità governante di infrastrutturazione generale dello sviluppo e delle rappresentanze plurali, orizzontali di aggregazione del vitalismo individualistico. E’ difficile negare che siamo ancora dentro questa fase.
Vignaga – Impossibile non soffermarci sull’incapacità che quella cetomedizzazione evocata da De Rita non si sia tradotta in neoborghesia. Quel “corpaccione” che doveva partorire una borghesia in grado di coagulare gli interessi collettivi, non è nata. Gli anni ’90 sembravano quelli giusti per dare spazio ad una nuova guida di classe fatta dai piccoli e medi imprenditori, ma loro a questo appuntamento sono mancati. De Rita richiama una battuta di Mario Luzi: “Più che diventare borghesi, hanno preferito diventare borghigiani”. Mi chiedo quanto quella cultura contadina, dove lavorare era meglio di studiare, sia l’origine di questa non evoluzione. Anche oggi, capita spesso, di sentire imprenditori che non vogliono managerializzare la loro azienda, preferiscono i periti ai laureati. In questi mesi sentiamo tanto parlare di imprenditori che non trovano lavoratori quando il problema è quello di cercarli, trovarli, formarli e pagarli. Pretendere che le scuole forniscano, modello “quattro salti in padella”, i lavoratori 4.0, è una mera utopia.
Romano – Come mai la borghesia dello sviluppo dal basso ha espresso così poco come classe “generale”? A mio modo di vedere De Rita ha colto nel codice genetico di questa imprenditorialità una carenza di visione sociale. Tu ne sai qualcosa, venendo dalla scuola Marzotto: quante cose ci sono prima, dentro e dopo l’impresa come agente economico in un mercato competitivo? Tantissime, e vanno pensate e realizzate con la stessa precisione e accuratezza dell’organizzazione produttiva. La tensione a fare società precede e determina il fare impresa. Lo si vede oggi in quello che era il mitico Nord Est. Domina la narrazione economica e non nascono più imprese. Quando, negli anni Sessanta e Settanta dominava la narrazione sociale le imprese nascevano come funghi. E’ paradossale, ma è così. Sto facendo una ricerca nel Bellunese sull’occhialeria, leader indiscussa sui mercati globali e quello che manca è una cultura sociale del fare impresa, un progetto di infrastrutture di capitale sociale a sostegno dell’imprenditoria.
Vignaga – Nel libro mi sembra che emerga marginalmente il problema del rapporto tra Nord e Sud. Nel libro, “La tradizione civica delle Regioni Italiani” del 1993 di Robert Putman ci aveva consegnato un Italia spaccata in due. Questo frutto di una dotazione di capitale sociale troppo diversa. Putnam richiama i valori di civicness (la fiducia, la cooperazione, ecc.), che stanno alla base del “capitale-sociale”, per segnare una riga di distacco tra Nord e Sud. Questa spaccatura non trova ancora una soluzione e, anzi, rischia di deflagrare. Anche nella attuale campagna elettorale il tema del mezzogiorno non si pone, tantomeno quello del Nord. Il voto degli elettori ha, invece, posto il problema della presenza di due italie. Per De Rita la questione Sud è ben poco affrontata, quasi non fosse cruciale per l’intero Paese. L’ho trovato strano per uno che è nato e sempre vissuto a Roma.
Romano – Hai ragione, questa osservazione mi ha fatto pensare. De Rita “nasce” con la Svimez e i problemi del Sud, ha inventato i patti territoriali. Questa omissione probabilmente ha a che fare con il suo “olismo”, la visione della società italiana come costruzione unitaria e storicamente diveniente. Un concetto che gli deriva dalla frequentazione del pensiero di Felice Balbo. Respinge l’idea di una frattura per così dire radicale. Anche se oggi, mi chiedo, qual è l’elemento che unifica un manager globale a Milano e un lavoratore intermittente a Caltanissetta? C’è un concetto di “società italiana” che li tiene insieme?
Vignaga – Schiere di sociologi si sono formati alla scuola di De Rita. Devono a lui la capacità di visione e un metodo. Tu Luca sei una persona che ogni giorno, attraverso “Local Area Network”, analizza i sommovimenti della nostra società, quale eredità ti lascia De Rita?
Romano – Questa domanda giustificherebbe la scrittura di un libro. In estrema sintesi la vedo così: alla deriva della mucillaggine la linea decisionista dell’autonomia del politico ha tentato una carta temeraria, con Matteo Renzi, ed è andato a sbattere. Perché? Bisogna ripartire da quel punto. Renzi è stato molto simile a De Gasperi come intenzionalità governante, con autentica adesione europea, apertura al contesto globale, realizzando grandi riforme in contesti altamente problematici. Perché non ha funzionato? Perché ai tempi di De Gasperi alla sua democrazia governante corrispondeva quel formidabile agente costruttore di comunità sociali che è la Chiesa, con le sue organizzazioni e non ultima un partito società come la DC. Oggi la dinamica sociale nella secolarizzazione è orfana di quella forza di condensazione e, quindi, ha reagito negativamente ai tentativi riformatori. L’eredità di De Rita è proprio focalizzare come o dove ritrovare questa forza di condensazione, con quale progetto culturale.
Titolo: Dopotutto e Rasoterra
Autore: Giuseppe De Rita
Editore: Mondadori
850 pp; 30 euro
Il libro di Giuseppe De Rita, “Dopotutto e Rasoterra”, sarà presentato giovedì 22 marzo 2018, ore 17.15, c/o la Cassa di Risparmio del Veneto, Via Trieste 57/59, Padova. Interverrà l’autore.