Alberto Baban, le elezioni ci hanno consegnato un Paese spaccato a metà: il Nord al centrodestra, il Sud al Movimento Cinque Stelle. Negli stessi giorni, Unioncamere ci dice che il Veneto cresce ad un ritmo del 6% tra produzione, fatturati ed export. «Un ritmo cinese» l’ha definito lei. I due fenomeni si possono sovrapporre?
«Temo sarebbe un errore imprudente e grossolano – dice l’ex presidente della Piccola Industria di Confindustria, presidente di VeNetWork -. Il risultato politico deriva infatti dal voto di un giorno; quello economico da provvedimenti di anni. È difficile vederci un nesso di causa-effetto. L’economia ha bisogno di tempo per metabolizzare le scelte della politica».
Gli imprenditori votano?
«Tra amici e colleghi, in curiosi “sondaggi” a cena, ho registrato grande senso civico e voglia di partecipazione. Poi chiaro, siamo solo una piccola parte del popolo».
Un’elite?
«Così ci definisce una certa politica che generalizza e semplifica per convenienza. Penso esista una classe dirigente che ha il compito o meglio, il dovere, di provare ad indicare una via. Può essere un industriale, un artigiano, un commerciante ma è pur sempre espressione del popolo, no? Si parla molto della “disintermediazione”, ma chi difende l’impresa difende l’imprenditore o tutto quel che c’è “dietro” l’impresa?».
Quali priorità dovrebbe avere il nuovo governo, se mai se ne riuscirà a formare uno?
«Stabilità, perché gli investimenti hanno bisogno di una programmazione di medio-lungo periodo; meno burocrazia, forse il più grande male del Paese; costi più bassi, dalle tasse al cuneo fiscale, passando per l’energia; riduzione del debito pubblico. E lasciamo stare idee balzane come l’uscita dall’Europa e dall’Euro, sarebbe il modo migliore per distruggere il nostro tessuto produttivo. Attenzione, però».
A cosa?
«Questo è il comun denominatore ma non ci può essere un’unica soluzione ai problemi dell’Italia, la politica non può pensare di dare la stessa risposta al Nord e al Sud. Non può funzionare. Pensiamo all’immigrazione: al di là della sicurezza, invocata da tutti, davvero il fenomeno può essere affrontato allo stesso modo al Sud, dove non c’è lavoro, e al Nord, dove c’è bisogno di manodopera? O ancora, la disoccupazione: qui abbiamo tassi “tedeschi” ormai da tre anni; al Sud si guarda con disperazione al reddito di cittadinanza, che è una resa, significa “non ce la faccio più, aiutatemi a tirare avanti”. Lo schema a cui siamo abituati, destra-sinistra, è consegnato ai libri di storia. In una fase di enorme complessità quale quella che si sta aprendo davanti a noi la rappresentanza politica sarà sempre meno ideologica e sempre più territoriale».
Il Nord sta abbandonando il Sud al suo destino?
«Superate le crisi del 2008 e del 2011, il Nord è diventata la più grande fabbrica manifatturiera d’Europa. Ha investito in digitalizzazione e internazionalizzazione, ha saputo agganciare la crescita, aggredire nuovi mercati e in questo senso è quasi più interessato alla politica estera che a quella interna: come si muoverà la Cina? L’America davvero inaugurerà una guerra commerciale a colpi di dazi? Come reagisce il mercato dei capitali? Questo territorio chiede competitività e produttività».
E il Sud?
«Ci sono tanti Sud e spesso sfuggono a pregiudizi e convenzioni. La Campania, ad esempio, negli ultimi anni è cresciuta parecchio. Le Marche, che erano il Nordest del Sud, hanno avuto crisi profonde e ancora non si sono rialzate. È vero, però, che c’è una parte del Paese, fortemente dipendente dalla spesa e dagli investimenti pubblici (in drastico calo in questa fase), che sta scivolando verso il Mediterraneo. Non è una partita persa ma il ritardo si sta facendo pericoloso e il gap incolmabile, serve una politica industriale capace di comprendere le potenzialità dei territori e svilupparle, penso ad esempio alle rotte del mare. Al banchetto dei mercati internazionali c’è posto per tutti. Bisogna riuscire a sedersi».
Eppure anche tra gli elettori del Nord ci sono molti «arrabbiati».
«È più facile misurare gli insuccessi dei successi. Quanti indecisi sono andati a votare forti di convinzioni dell’ultimo minuto, travolti dalle paure? Nell’epoca dei social sono i messaggi estemporanei ad orientare le masse mentre ci vorrebbe tempo per conoscere, discutere, capire».
È vero che alcuni imprenditori preferiscono la politica debole, all’angolo, così che le energie della società civile siano libere di esprimersi?
«C’è chi pensa: piuttosto di uno che fa danni, meglio nessuno».
A che si riferisce?
«C’è questa pessima abitudine, in Italia, di distruggere quel che è stato fatto dai predecessori, per segnare una discontinuità. Ne sento parlare anche oggi: Jobs Act, Industria 4.0, legge Fornero. Credo sia dovuta “all’impazienza” dell’elettorato: se sono “contro” e cancello, il risultato è immediato e il messaggio efficace. Se sono “per” e provo a costruire qualcosa, ci vogliono anni per vederne gli effetti e questi non si traducono in consensi. Pensiamo solo a quanto ci si mette ad approvare una legge… Ma, come dicevo all’inizio, sono queste le iniziative che cambiano il Paese. Ci vorrebbero politici capaci e illuminati, in grado di reggere la pressione, quell’urgenza dell’attimo che porta a soluzioni effimere, se va bene e ad errori devastanti, se va male».