Sarà pur stato un “baby”, “piccolo”, passettino, come lo hanno poi descritto e metabolizzato i mercati. Resta il fatto che la Bce ieri ha preso una decisione importante che va nella direzione della fine del Qe, rinunciando a uno strumento di politica monetaria ultra-accomodante rimasto nel cassetto pronto all’uso dal dicembre 2016. Cancellato l’“easing bias”, con un voto unanime del consiglio direttivo che non ha discusso di altre decisioni, da ieri la Banca centrale non è più “pronta” ad incrementare il programma di acquisti App in termini di entità e di durata, nel caso di prospettive meno favorevoli . La politica monetaria resta comunque reattiva, pronta a reagire se serve, e non più proattiva.
Questa mossa non è arrivata come una sorpresa assoluta: era pronosticata dai mercati ma con aspettative modeste, perchè il target dell’inflazione è ancora lontano – «non possiamo dichiarare vittoria sull’inflazione» ha detto ieri Draghi – e perché l’economia europea, per quanto robusta, resta soggetta a rischi che il presidente Mario Draghi ha sintetizzato ieri così: «Protezionismo e deregolamentazione finanziaria», sottintendendo due cavalli di battaglia del presidente Trump.
Tolto l’easing bias, i mercati hanno reagito subito pronti a scontare un “tightening” prima del previsto, così l’euro si è subito apprezzato e i prezzi dei bond sono scesi e i rendimenti sono saliti. Ma le parole di Mario Draghi hanno frenato la corsa: la strada verso una stretta è ancora lunga visto che, come ha scandito il numero uno della Bce, restano in campo gli acquisti da 30 miliardi al mese fino a settembre e forse oltre, i tassi restano bassi per un prolungato periodo di tempo e «ben oltre» l’orizzonte degli acquisti netti. E in aggiunta ai flussi, lo stock fa la sua parte e di peso: l’Eurosistema reinvestirà il capitale rimborsato «per un prolungato periodo di tempo», è stato ridetto ieri. E poi la forward guidance. Tornato il linguaggio della colomba, euro e rendimenti sono ridiscesi e i prezzi dei bond risaliti, lasciando le solite ferite su chi è andato short.
Lievi ritocchi, come previsto, sono arrivati sulle nuove stime 2018-2020: solo la crescita reale 2018 è salita dello 0,1% e l’inflazione 2019 è scesa dello 0,1% rispetto a quanto previsto a dicembre. Il quadro complessivo disegnato da Draghi resta dunque buono ma non privo di rischi. Dure le parole del presidente su quella che non ha voluto chiamare “guerra commerciale”: la Bce preferisce che le controversie si risolvano in ambito multilaterale, «le decisioni unilaterali sono pericolose», ha messo in chiaro. Qual è il pericolo? La banca centrale guarda a crescita ed inflazione: dazi, protezionismo e ritorsioni possono avere un impatto «difficile da quantificare» ma tuttavia «negativo» sulla fiducia e quindi suinflazione e output. E questo stesso filo di ragionamento Draghi lo ha riproposto sollecitato dalle domande dei giornali sull’impatto dell’instabilità politica italiana post- elettorale: senza riferimenti diretti, ha ribadito che a lungo andare la fiducia può essere danneggiata e dunque la crescita. Pur convenendo che la reazione dei mercati, «per il momento» è stata contenuta – in riferimento all’esito elettorale in Italia – Draghi ha riaffermato obiettivi imprescindibli per la Bce: la sostenibilità dei conti pubblici resta fondamentale per i Paesi ad alto debito pubblico, le rifome strutturali vanno attuate e rinvigorite per rafforzare la crescita potenziale e la produttività, i buffer fiscali servono a ridurre le vulnerabilità. «L’euro è irreversibile», ha poi tagliato corto con il tono del whatever-it-takes.
L’inflazione che stenta ad arrivare al target (vicina ma sotto il 2%) richiede dunque ancora uno “stimolo ampio” di politica monetaria, ha riaffermato Draghi. Ma la maggiore preoccupazione per la Bce non è ora l’inflazione, risiede nel rischio più plateale, che è il “protezionismo” di Trump, e in una tendenza meno appariscente ma non per questo meno pericolosa che è la «deregolamentazione finanziaria». Con l’esperienza da ex-presidente del Financial Stability Board ai tempi della Grande Crisi Finanziaria, Draghi ha posto l’accento sui rischi che corre un sistema mondiale dove inizia ad insinuarsi la deregolamentazione in altre giurisdizioni(non europee), «con il pericolo di commettere gli stessi errori», tornando a quello che c’era dieci anni prima della crisi.