Quando Alberto Bombassei la portò in Borsa, nel 1995, c’era ancora la lira e la Brembo era una piccola-media azienda. Aveva 1.115 dipendenti, in valuta d’epoca fatturava 250 miliardi: nemmeno 130 milioni, se l’euro ci fosse già stato. Oggi — o meglio, già ieri: il bilancio 2017 verrà approvato questa mattina — i dipendenti sono 9 mila. I ricavi 2,8 miliardi. Gli utili netti, quasi il doppio del giro d’affari di allora. Le quotazioni, come sopra: ogni singolo euro di capitalizzazione iniziale ne vale, adesso, più di 19.
Bene. È alquanto probabile che ci siano più di una Brembo e qualche altro Bombassei, in mezzo ai 500 Champions scoperti da L’Economia e ItalyPost nel viaggio tra le 14.632 piccole e medie società italiane. L’uomo che poi sarebbe diventato il monarca assoluto (e globale) dei freni non era in fondo, un quarto di secolo fa, granché diverso da molti di loro. Sarebbe stato nella stessa classifica. Come ci sarebbe stato Alberto Vacchi, per dire, altra matricola doc (con l’Ima) del 1995 e altro percorso di crescita no stop.
Da quell’ipotetica «top Pmi» sia Brembo sia Ima sarebbero uscite in fretta, perché in entrambi i casi il salto di dimensione è riuscito con un tasso di successo persino superiore alle attese (già alte). Proprio perciò sono l’evidente conferma che «si può fare». E una sorta di promemoria per l’oggi, in qualche modo: prima o dopo, anche ai «piccoli» campioni di questa Super League edizione 2018 toccherà dimostrare la stessa cosa. Alcuni di loro sono già dentro o vicinissimi alla soglia critica, quei 100-120 milioni di fatturato oltre i quali — quando i bilanci sono ricchi, come qui — di solito succedono due cose.
La prima è certa: ci si comincia a chiedere se farlo oppure no, il salto, visto che a quel punto finanziare gli stessi ritmi di sviluppo richiede capitali più «pesanti». La seconda è più che possibile: mentre uno è lì a lavorare e a riflettere, magari proprio sulla quotazione, alla porta bussa un fondo, o un banchiere d’affari, o un big dello stesso ramo di business, comunque munito di consistente libretto degli assegni e altrettanto consistente offerta.
Almeno ad alcuni dei 500 Champions — i nomi più noti — è già successo: sono decisamente corteggiati. Ad altri succederà: per ora riescono a evitare i riflettori. Tutti però, qualunque scelta facciano quando verrà il momento del big jump, del grande salto, partono da posizioni stravantaggiose.
Esempio. Come il resto del mondo imprenditoriale, i campioni della classifica L’Economia-ItalyPost ringraziano ovviamente per gli incentivi allo sviluppo. A loro, però, il piano Industria 4.0 serve non tanto a colmare il ritardo (quando non proprio il vuoto) degli investimenti in innovazione. A loro serve semplicemente a facilitare e accelerare, visto che di investire non hanno mai smesso. Neppure nei lunghissimi anni di crisi. Nemmeno quando gli incentivi non c’erano. Vale per ogni settore di questo spaccato dell’economia italiana di successo. Spicca in modo particolare nella punta di diamante della nostra industria. Esatto, lo stesso di Brembo e Ima: la metalmeccanica. E la sua declinazione più tipica: l’automotive. Che non è soltanto Fca. È ovvio che attorno ai suoi stabilimenti si sia sviluppata, nei decenni, una rete di fornitori cresciuti all’ombra della Grande Fabbrica. È evidente anche che, quando a Torino hanno rischiato il default, insieme ai dipendenti i primi a farne le spese sono stati molti di quei fornitori. Qualcuno è fallito subito, ad altri la botta finale l’ha data la recessione post Lehman. Eppure c’è chi, dalla doppia crisi, è uscito più forte. Si è cercato altri clienti tra i big dell’auto mondiale. Ha innovato. Si è superspecializzato.
È così che Nicola Di Sipio, per esempio, è partito da Manoppello, Abruzzo, ed è diventato il più importante produttore indipendente di pastiglie e ganasce per freni: tra il 2010 e il 2016, anni neri soprattutto per l’auto, con la Raicam è riuscito a crescere a una media del 9% e ad aprire un centro di Ricerca & Sviluppo anche in India. Di Sipio fa componenti. Anzi: componenti di un componente (il freno). Qualcosa che non si vede, anche se è alta la probabilità che siano sue, le «pastiglie» montate sulle nostre macchine. Sempre che non siano bolidi da strada. Nel qual caso basta salire da Pescara a Modena, cuore della Motor Valley, per scoprire quello che gli appassionati già sanno: che il triangolo Ferrari-Maserati-Lamborghini è in realtà un po’ più ampio.
Un po’ più su di Modena, a Varano de’ Melegari, c’è il regno di Gian Paolo Dallara. Un po’ più giù, verso Bologna, quello di Horacio Pagani. L’uno e l’altro sono superartigiani di vere hypercar. Per loro la questione delle dimensioni non è un problema, quello del passaggio generazionale e/o gestionale forse sì (prima o poi): pensate che nessuno li abbia già nel mirino, i due piccoli costruttori di auto-mito che in sei anni hanno raddoppiato (Dallara) o addirittura quasi quadruplicato (Pagani) il fatturato? E macinando utili? Chiedere a fondi e concorrenti. Che finora, però, il cartello «vendesi» non l’hanno trovato.