La classificazione settoriale è solo uno dei modi con i quali è possibile leggere i risultati della ricerca dal titolo «Champions 20-120. Le Pmi italiane Top Performing 2018», condotta da ItalyPost (in collaborazione con Special Affairs e modefinance), riassunta nelle pagine precedenti. Si tratta, come suggerisce il titolo, di piccole e medie imprese che fatturano fra 20 e 120 milioni di euro e che vantano performance di primissimo piano (un tasso annuo com- posto di crescita 2010-2016 del 13,07% e un Ebitda medio degli ultimi tre esercizi del 19,07%). Quello per settori è sì un modo tradizionale di vedere le cose, ma che resta capace di svelare — o, meglio, confermare — alcune fondamentali verità sul sistema economico italiano di quest’inizio del XXI° secolo. La prima verità è che la manifattura conta, eccome se conta; la seconda è il ruolo guida che, in seno alla manifattura, riveste la meccanica in tutte le sue raffinate specializzazioni. Procediamo per gradi.
Sono manifatturiere all’incirca 400 Pmi sulle 500 complessive dell’indagine. Ora, se dalla ripartizione settoriale di un insieme rappresentativo di Pmi di successo, con i quattro quinti che fanno capo alla manifattura, passiamo alla tradizionale descrizione macroeconomica della formazione del valore aggiunto, le proporzioni naturalmente cambiano. In Italia, il manifatturiero vi contribuisce in una misura che si colloca al di sotto del 20% (valore però destinato a salire al 25% e oltre nelle regioni di più solida tradizione industriale del Centro-Nord del Paese), mentre il settore dei servizi col suo abbondante 70% fa la parte del leone.
La spinta tecnologica. E allora, tanto rumore per nulla, si potrebbe essere tentati di affermare in polemica con i fautori del «rinascimento manifatturiero»? L’enfasi sul ruolo della manifattura in una economia evoluta qual è la nostra è ben riposta per almeno due motivi. Primo: il corretto funzionamento di una parte consistente dei servizi dipende dalla domanda espressa dal settore industriale. Secondo: è in funzione quello che possiamo chiamare il «moltiplicatore manifatturiero»; ossia, quel 20-25% di contributo diretto della manifattura al valore aggiunto balza — in tutte le economie avanzate — al 75-80% quando si passa a valutare il suo contributo agli investimenti (privati) in Ricerca & Sviluppo e alle esportazioni; ossia, alle due attività oggi strategiche per competere.
Siamo così giunti alla seconda verità: il ruolo della meccanica, che è da intendersi — in Italia più che altrove — in senso ampio al fine di tenere conto di tutte le sue numerose specializzazioni. L’indagine sui 500 Champions, citata all’inizio, ci dice che fanno capo al settore meccanico 102 imprese, a quello dei pro- dotti in metallo 58, a quello elettrico ed elettronico 33, numeri che portano il totale a 193 (i due-quinti delle imprese dell’indagine e la metà di quelle manifatturiere). Questa specializzazione dell’industria italiana assume un significato particolare oggi, negli anni della quarta rivoluzione industriale, l’ormai famosissima Industry 4.0.I due studiosi del Mit Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee nel loro The Second Machine Age (2014) considerano la «ricombinazione» di tecnologie diverse come una delle tre caratteristiche chiave dell’attuale progresso tecnologico, insieme alla «legge di Moore» e alla «digitalizzazione».
La spina dorsale europea. L’Italia è, non da oggi, una delle capitali mondiali della «meccatronica», che l’Enciclopedia Treccani definisce come quella «scienza che nasce dall’integrazione tra la meccanica e l’elettronica al fine di progettare, sviluppare e controllare sistemi e processi a elevato grado di automazione e integrazione» .Partendo da queste basi, Industry 4.0 può e deve essere vista come una naturale evoluzione della specie. Due dati gettano luce sulla forza dell’industria meccanica italiana — citiamo testualmente da un lavoro della direzione Studi e ricerche di Intesa Sanpaolo (luglio 2017) — «alla soglia della quarta rivoluzione industriale»: il suo peso nel commercio mondiale e la rilevanza dell’innovazione.
Sul primo punto, i ricercatori di Intesa scrivono che l’Italia «si posiziona al quinto posto tra i principali Paesi esportatori (nel 2014), con una quota di mercato del 7% circa, dopo Germania, Cina, Stati Uniti e Giappone», ma è al primo posto nelle «macchine per l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco». Sul secondo punto, l’Italia — ci dice sempre il rapporto — «con 7.923 brevetti si posiziona all’ottavo posto, dopo le principali economie e leader del settore», col packaging che conferma ancora una volta la sua leadership.
Parlare di meccanica, meccatronica e Industria 4.0 porta, come per incanto, a parlare delle due principali manifatture europee: la Germania e l’Italia. Due sistemi assai diversi dal punto di vista delle dimensioni d’impresa, ma legati da relazioni di cooperazione e, al tempo stesso, di competizione. Nella nostra Ue, i destini dell’economia reale sono largamente affidati alla solidità di questa spina dorsale italo-tedesca. La nuova politica industriale, fondata sugli investimenti in conoscenza, dovrebbe lavorare per rafforzarla.