Prima il caso Amazon e poi quello Embraco. Dai braccialetti che dovrebbero dirigere i movimenti degli addetti agli scaffali e alle spedizioni fino ai licenziamenti della multinazionale Whirlpool a Torino, per le multinazionali non sono state settimane facili. Si può dire che molto ha contato il clima infuocato di una campagna elettorale svoltasi più all’insegna del «contro» che del «per» e che di conseguenza ha fatto diventare i capri espiatori merce pregiata (specie per i populisti). Si può anche sottolineare come in entrambe le polemiche abbia giocato molto il peso del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che impegnato in una non-campagna tambureggiante ha attaccato duramente sia Amazon sia Embraco. E che lo facesse un uomo di provenienza e cultura aziendale, che potrebbe essere tranquillamente un ceo di una multinazionale che opera in Italia, ha sicuramente rafforzatola tendenza di cui parliamo.
Ma è solo frutto delle esasperazioni tipiche della lotta politica all’ultimo voto la quantità di strali rivolti ai gruppi stranieri? O forse vale la pena tentare di guardare anche alle tendenze culturali di fondo della società italiana? Il rancore di cui ha parlato il Censis si indirizza facilmente verso obiettivi altamente simbolici come sono le multinazionali e purtroppo non è nemmeno una novità che ad esse vengano ascritti progetti che una volta venivano catalogati alla voce «imperialismi». Volendo però analizzare, come già detto, con maggiore attenzione i vari segmenti della società si può rintracciare una linea di demarcazione sul tema gradimento/odio verso le multinazionali che passa per linee diverse dal passato quando il tema agitava principalmente il popolo della sinistra. C’è sicuramente una componente molto radicalizzata nei confronti delle corporation che durante la campagna elettorale ha tentato più volte di abbinare la parola multinazionali con schiavismo, una componente che possiamo individuare come abbastanza vicina al Movimento Cinque Stelle. Del resto un sociologo come Domenico De Masi, considerato molto vicino ai grillini, ha scritto che «la nuova dittatura dei Big Data» è come l’Holomodor, il genocidio di cinque milioni di ucraini degli anni Trenta. Magari gli elettori di Luigi Di Maio non hanno letto i libri di De Masi ma parliamo comunque di concezioni assai vicine tra loro.
Accanto però agli odiatori più o meno professionali si è palesato in queste circostanze un altro blocco dell’opinione pubblica che presenta aspetti di novità. Per comodità lo chiameremo «modernista» ed è composto da tutti coloro che guardano con favore all’azione delle multinazionali non in virtù di un pregiudizio politico-ideologico favorevole ma perché usufruiscono dei loro servizi e li trovano incomparabilmente superiori rispetto al passato. Si tende così, per esempio, ad assolvere Amazon se obbliga suoi dipendenti a turni di lavoro massacranti perché comunque l’azienda di Jeff Bezos rappresenta la quintessenza della modernità e di conseguenza interpreta meglio di altri lo spirito del tempo e la vittoria del consumatore. E questo non vale solo per Amazon ma riguarda anche Uber e Airbnb, per fare altri due esempi di offerte pro-consumer.
Sarebbe interessante verificare se questo segmento cosmopolita vive solo nella grandi città oppure se si sia ramificato anche nei territori. La cultura h24, del servizio-prima-di-tutto, nasce evidentemente in ambito urbano ma può esercitare una sua attrazione «aspirazionale» anche oltre. Se dunque questa è la polarizzazione di opinioni sulle multinazionali che si è palesata dobbiamo forse sperare che, una volta risolta la competizione elettorale, si possa cercare una convergenza verso un atteggiamento più pragmatico. Le multinazionali sono necessarie allo sviluppo del nostro Paese, alcune di loro danno un contributo di creazione di valore che probabilmente noi non saremmo stati in grado di generare ed è anche probabile che lo shopping straniero nel Belpaese continui a ritmo serrato. Dobbiamo quindi conciliare le ragioni dell’attrazione di investimenti con la capacità di negoziare con le multinazionali le migliori ricadute possibili in termini di qualità del lavoro e di sviluppo dei territori. Anche l’ala modernista dovrebbe capirlo e dare il proprio contributo di idee. Oggi non è così.