Tempo di elezioni, tempo di programmi. Roberto Perotti ha esaminato su Repubblica quelli dei principali partiti, ma non sono i soli che hanno prodotto proposte. Spicca fra molti il documento di Confindustria. Gli industriali vogliono un’Italia più moderna e meno burocratica, migliorando il sistema formativo, l’accesso al mercato del lavoro, la capitalizzazione delle imprese e i conti pubblici. Fin qui tutto bene. Anzi, discettando della scuola superiore, Confindustria sponsorizza un sistema aperto all’interazione con l’impresa e concorrenziale. Si vuole garantire piena autonomia alle scuole, nel reclutamento del personale e nell’organizzazione dell’insegnamento all’interno di un budget pubblico predefinito e integrabile da contributi privati, basandosi su rette progressive per fasce di reddito. Qui fa capolino un’idea bizzarramente socialista. Infatti uno dei punti cardine è la “compartecipazione alla spesa per i servizi pubblici” da parte di chi se lo può permettere. Ora, i “benestanti” sono già sottoposti a tassazione progressiva del reddito, sono esclusi dai benefici (no esenzioni ticket o tasse universitarie, no case popolari, no detrazioni fiscali) e con quello che rimane dovrebbero pagare i servizi pubblici che sovvenzionano? Non ci resta che aspettare l’Iva differenziata sul prosciutto a seconda del reddito. La proposta potrebbe avere senso se Confindustria suggerisse, ad esempio, una flat tax o un appiattimento delle aliquote Irpef, ma non ce n’è traccia.
Si parla poi di una forte riduzione del debito pubblico, 20 punti in 5 anni, di entità tale che implica una decurtazione della spesa pubblica, visto che abbondano le misure contrarie di agevolazioni e crediti di imposta alle imprese e un auspicio della riduzione del cuneo fiscale. Di questa decurtazione, però, non c’è traccia, salvo l’invocazione di spending review e centralizzazione degli acquisti.
Per diminuire il peso del debito non si riesce a trovare la parola privatizzazioni, scomparsa dall’orizzonte confindustriale. Le liberalizzazioni non compaiono mai, anche se almeno si richiede la messa a gara del trasporto pubblico locale e l’approvazione della legge annuale della concorrenza. Ma per far cosa? Notai?
Farmaci di fascia C? Portabilità dei fondi pensione, trasporto, concessioni balneari, Bolkestein, diritti d’autore? Non si sa.
Spunta anche una richiesta di cambiare il regime del divieto europeo degli aiuti di Stato: non sembra per renderlo più stringente ma forse sbaglio. Inquietante è la frasetta sulla “tutela degli asset produttivi nazionali strategici”: speriamo non la applichino gli stranieri a Enel, Fiat, Terna, Leonardo e alle imprese italiane che acquisiscono all’estero. L’invocazione di investimenti su tutto lo scibile umano pervade il documento e una delle soluzioni per finanziarli sono gli eurobond. Questa è una illusione: li puoi chiamare euro, ma i bond rimangono debito, punto. Inoltre, oltre a non essere di gradimento dei Paesi virtuosi, avrebbero la conseguenza di alzare il costo del debito pubblico: sono un investitore istituzionale e posso scegliere tra obbligazioni garantite dalla Germania ed emesse dal governo italiano, che faccio? Chiederò a Roma interessi più alti.Infine, si rilanciano artifizi contabili che non cambiano la sostanza del peso del debito o della misura del deficit.
Individuare obiettivi condivisibili non è sufficiente se poi si vola alto sui dettagli o si introducono concetti vaghi o non coerenti con un minor peso dello Stato e la libertà dei commerci.