La ripresa non cancellerà le crisi industriali. E’ la verità e conviene dirla subito. Da diverso tempo del resto si stima che i tecnici del Mise stiano lavorando ai dossier di 160 aziende e il numero resta sostanzialmente lo stesso perché ci sono entrate e uscite pressoché in parallelo. Imprese che escono dall’officina «grandi riparazioni» (vedi i recenti casi virtuosi di Alcoa in Sardegna e Ideal Standard nel basso Lazio) e altre imprese che vengono ricoverate in contemporanea. A dimostrazione di come il ciclo delle ristrutturazioni dell’industria italiana non sia terminato, anzi.
Tra i dossier più voluminosi spiccano quelli di Ilva e Alitalia, due vicende aziendali sui generis. La prima si sarebbe dovuta risolvere con la vendita ai franco-indiani di ArcelorMittal e invece è ancora in ballo (si attende il giudizio del Tar) per il contenzioso tra il governo e la Regione Puglia sulle procedure di bonifica ambientale. Per l’Alitalia, anch’essa in vendita, bisognerà attendere il risultato delle elezioni perché i potenziali acquirenti prima di spendersi vogliono capire chi comanderà in Italia dopo il 4 marzo. Da tener d’occhio ci sono sempre i casi di multinazionali che, come dimostra la vicenda Embraco, specie nelle produzioni a basso valore aggiunto sono attratte da Paesi nei quali il costo del lavoro è più basso. Vedi Slovacchia oppure sempre nel settore degli elettrodomestici il distretto industriali della Slesia, in Polonia.
Un settore che al Mise seguono con trepidazione è quello delle grandi opere, i gruppi italiani quando riescono a vincere commesse all’estero vanno sul velluto, quando sono costretti a guardare in patria tremano. E’ il caso del gruppo Condotte. Più in generale si può dire che latitano i progetti industriali made in Italy, gli investimenti sono ripresi ma quasi esclusivamente nel 4.0 con la sostituzione del vecchio parco-macchine e l’avvio della digitalizzazione. Così la maggior parte dei capitali che si muovono è solo straniera, per lo più in giro a caccia di prede.
Qualche preoccupazione al Mise viene dalla grande distribuzione, i margini delle imprese si assottigliano, nel mondo avanzano progetti disruptive come quelli in capo ad Amazon e chi dovrebbe replicare inevitabilmente arranca. Punti di crisi si trovano persino nel settore della componentistica per l’automotive, che pure dovrebbe giovarsi dell’ottimo ciclo delle vendite auto: il nome è quello della Eaton che ha già chiuso in Piemonte e minaccia di fare lo stesso in Alto Adige.
Segnali di sofferenza si registrano anche nell’abbigliamento maschile e i nomi sono Canali e Brioni. Sono le aziende che si basano sul capospalla maschile quelle in bilico, anche perché pagano una dimensione ridotta e l’assenza di capitali. Le difficoltà delle Pmi si fanno sentire anche nel celebratissimo mondo del food, molte aziende hanno retto finora aggrappandosi alle nicchie dei prodotti regionali ma la formula alla lunga rischia di non bastare.
Di fronte a queste ristrutturazioni incompiute e che coinvolgono migliaia di lavoratori la carta che l’officina grandi riparazioni del Mise gioca è quella della reindustrializzazione, la stessa che il ministro Carlo Calenda ha in mente per Embraco. E’ un piccolo salto mortale e insieme un esercizio di politica industriale dal basso: si cercano nuovi imprenditori disposti a rilevare le attività in crisi, si ricolloca il maggior numero possibile di licenziati e si parte per una nuova avventura quasi sempre in un settore diverso.
Come è ovvio non tutto fila sempre liscio ma la reindustrializzazione è l’unica carta da giocare fino in fondo. Tanto è vero che, ironia della sorte, mentre si litiga con Embraco stanno partendo addirittura quattro nuove imprese nei siti ex Indesit rilevati dalla stessa Whirlpool e poi sottoposti a una drastica ristrutturazione.
L’economia del dopo-crisi del resto è fatta così, non regala nulla. Polarizza il sistema delle imprese, esalta le «lepri» e umilia le «tartarughe» e la ripresa che pure ha risollevato il Pil alla fine mostra il suo vero volto. Selettivo.