La storia dei rapporti fra l’Italia e l’Unione Europea è ricca di episodi uniti dallo stesso filo rosso: a Bruxelles o a Francoforte viene introdotta una misura apparentemente tecnica, che in Italia viene notata in piccole cerchie di specialisti; poi però il resto del Paese si rende conto che quell’aggiustamento mette in moto cerchi concentrici di trasformazioni nell’economia e nella società. A quel punto gli interessi sfavoriti dalle nuove decisioni cercano di guidare una rivolta in nome della «sovranità», che ritarda e rende più costoso l’adeguamento che alla fine si rivela inevitabile.
Si è visto molte volte, da Maastricht in poi, e rischia di ripetersi. Non prima delle elezioni, ma subito dopo sì: da metà marzo gli annunci e con ogni probabilità dal primo aprile un nuovo regime nelle regole sul credito imporrà, a cascata, cambiamenti nell’efficienza della giustizia civile e nella struttura delle microimprese che oggi rappresentano il 95% delle società in Italia; queste ultime, se il bilancio è fragile, troveranno sempre più difficile ottenere senza garanzie credito bancario da usare come liquidità nella vita quotidiana.
Molto di ciò che è in arrivo è stato già segnalato a Bruxelles e Francoforte. Se l’agenda europea non cambia, il 13 marzo la Commissione Ue e il 14 marzo la Banca centrale europea usciranno con nuove proposte e decisioni sulle banche e il modo di gestire e ridurre i crediti in default. Per entrambe le istituzioni la strada è segnata. La Commissione seguirà un accordo fra gli sherpa finanziari europei: proporrà che per legge sul «Pilastro 1» (il capitale regolamentare di base delle banche) le banche mettano da parte molto più capitale in caso di eventuali problemi nel rimborso dei nuovi crediti che verranno concessi dal 2018 in poi. La Bce va un passo più in là: indicherà per il «Pilastro 2» (il patrimonio in più chiesto dai regolatori a ciascuna banca) che gli accantonamenti debbano essere molto più alti a fronte di ritardi registrati dal primo aprile in poi nei rimborsi dei crediti già concessi in passato.
È dunque evidente l’incentivo degli istituti a riconoscere entro le prossime cinque settimane tante posizioni dubbie come default. Sui prestiti senza garanzie entrati in difficoltà da aprile in poi una banca dovrà costituire entro due anni riserve di capitale pari al 100% della somma erogata; invece sui prestiti coperti da garanzie, sempre in caso di ritardi o default nei rimborsi da parte del cliente, la banca dovrà mettere da parte riserve per il totale della somma entro sette anni: ogni anno gradualmente in modo proporzionale. Anche se un immobile a garanzia di un credito copre metà del suo valore, verrà trattato come se valesse zero.
Non è solo un adeguamento tecnico. Presto queste misure inizieranno ad agire sul sistema giudiziario e sulle microimprese, come Maastricht fece sui conti pubblici: forzando i tempi di un cambiamento necessario ma non indolore. Mediobanca Securities stima che fino al 2020 l’iniziativa della Bce possa erodere 0,10-0,15% l’anno dal capitale delle banche. La stretta al credito potrebbe limare la crescita anche di 0,2% l’anno. Le banche infatti diventeranno molto più riluttanti a prestare a imprese artigiane che non presentano garanzie, sapendo che in caso di minimi problemi dovranno azzerare metà del credito subito e tutto il resto l’anno dopo. Si dimostrerà poi ormai del tutto insostenibile una giustizia civile che in media richiede oltre 1.100 giorni per pignorare un immobile a garanzia di un prestito in default. Qualunque sia il giudizio sui modi del cambiamento, questo è in arrivo. E anche ai tempi di Maastricht la politica all’inizio non aveva capito le conseguenze .