Attonno al caso Italo è sorta una discussione che potremmo definire di politica industriale. Tutto è partito dal clamoroso blitz che il fondo americano Gip ha condotto su Ntv, il secondo gestore dell’alta velocità ferroviaria che nel suo azionariato vede accanto ai massimi operatori finanziari del Paese (Intesa e Generali) anche alcuni dei nomi più prestigiosi dell’industria e del business italiano come Diego Della Valle, Luca di Montezemolo e Alberto Bombassei. È stato giusto che gli azionisti vendessero oppure sarebbe stato meglio proseguire il cammino e portare Ntv in Borsa? Della Valle e Montezemolo anche nel day after paiono pensarla in modo opposto, con il primo che avrebbe preferito comunque continuare e il secondo che ha considerato irrinunciabile l’offerta a stelle e strisce.
Ma visto che raccogliere il latte versato ha poco senso converrà almeno in questa sede concentrarsi sui dilemmi che il caso Italo ha posto e che ci troveremo di nuovo davanti. È quella che si può definire la maledizione della «taglia large» ovvero l’incapacità del sistema Italia di produrre grandi imprese quasi se la taglia medium fosse il massimo che possiamo conseguire, anche nel format vincente delle multinazionali tascabili del food, della moda e del design. Ci sono già degli altri casi Italo alle porte? Di chiacchiere se ne fanno tante ma è evidente che sono molti i brand o le aziende di solida tradizione manifatturiera che fanno gola agli stranieri cosi come può essere interesse di Pechino nell’ambito di China 2025 guardare alle imprese italiane dotate di particolare know how, ad esempio, nel settore delle macchine utensili e dei robot. In più l’attenzione, o se preferite l’allarme, si rivolge verso gruppi che non hanno saputo gestire per tempo un’ordinata staffetta generazionale. Proprio per far fronte a queste evenienze il capo economista di Nomisma, Andrea Goldstein, aveva qualche tempo fa avanzato sul «Sole 24 Ore» la proposta di mutuare in Italia l’esperienza delle fondazioni di impresa che funzionano bene in Germania.
Dopo anni in cui “politica industriale” è stata un’espressione maledetta, con il ministero dello Sviluppo economico nelle mani di Carlo Calenda si è avuta un’inversione di tendenza. Il piatto ricco è stato il Piano Industria 4.o che ha avuto successo grazie a una semplificazione concettuale. Lo Stato non delinea le traiettorie dello sviluppo dei settori — come aveva tentato malamente di fare Industria 2015 dei tempi di Pierluigi Bersani ministro — ma fissa degli obiettivi trasversali ai settori (in questo caso il rinnovo degli impianti e la digitalizzazione delle tecnologie) e li finanzia in maniera automatica. Accanto a quest’indirizzo l’azione di Calenda sta suonando aggressiva sia in direzione della risoluzione delle crisi aziendali con soluzioni di reindustrializzazione (vedi i casi Alcoa in Sardegna e Ideal Standard nel basso Lazio) sia contestando le chiusure di siti produttivi per effetto di scelte di delocalizzazione (come Embraco orientata verso la Slovacchia e Carlson Wagon-lit diretta in Polonia). Ma è evidente che stiamo ragionando su piani diversi dal caso Italo. Lo stesso presidente di Intesa Sanpaolo, l’economista industriale Gian Mario Gros Pietro dopo il blitz americano ha rilasciato una dichiarazione in cui ha fatto capire che pur volendo la banca vendere «sarebbe stato molto positivo che ci fosse stato un offerente italiano disposto a rilevare la nostra quota».
Ma è possibile che da un momento all’altro si materializzino degli imprenditori disposti a improvvisarsi nel trasporto ferroviario magari distraendo risorse dagli investimenti sul proprio core business? Esistono in natura nell’Italia dell’anno di grazia 2018 personaggi di questo tipo? La risposta è no e quindi più che a eventuali capitani coraggiosi la discesa in campo di capitali altrettanto capaci di osare interroga la finanza di sistema. E qui si deve tornare giocoforza a parlare del caso Parmalat, una vendita sciagurata di un asset di primissimo livello per di più in favore di un azionista francese a scarsissima trasparenza societaria e a mediocre redditività di gruppo (la Lactalis della famiglia Besnier). Anche a quel tempo si parlava seppur confusamente di una cordata alternativa italiana che avrebbe dovuto portare in campo i Barilla e i Ferrero e non se ne potette far nulla. Ma il governo di allora che vedeva a Via XX Settembre Giulio Tremonti prese l’occasione della Parmalat per far approvare in Parlamento una legislazione anti-scalate e per creare uno strumento finanziario pubblico, il Fondo Strategico Italiano.
La discussione su come si sia mosso in questi anni il Fsi, quali scelte giuste abbia fatto e quali invece restino opinabili, merita ben altro approfondimento. Ma forse proprio in vista di nuovi casi Italo questa discussione va fatta, quantomeno per non recriminare solo a babbo morto. Sempre in questa filosofia, Goldstein sostiene che andrebbe attrezzata una sede istituzionale ad hoc. E ricorda come la Ue nel consiglio di Bratislava del 2016 abbia raccomandato ai Paesi membri di creare il Consiglio nazionale della produttività. II termine dovrebbe essere fissato ai w marzo 2018, l’Italia a differenza di altri Paesi non ha ancora mosso un dito ed è difficile che lo faccia nell’infuocato marzo del i8 che ci si para davanti. Goldstein sostiene che c’è un nesso fortissimo tra la produttività italiana e la taglia delle sue imprese e se ci fosse il Cnp potrebbe essere la sede per acquisire evidenza analitiche e sollecitare una riflessione-Paese sulle contromisure. In attesa di un sussulto di razionalità è stato chiesto agli investitori che hanno incassato forte liquidità dalla vendita Italo di reinvestire in Italia. Montezemolo fa sapere di «non escludere di reinvestire una quota dei proventi» di Italo in nuove avventure di business. Ma non sono solo gli azionisti di Ntv ad avere consistente liquidità, c’è ancora il gruppo Pesenti per effetto della venditadi Italcementi ed Edizione holding della famiglia Benetton.