Oltre 1,8 milioni di occupati in più in cinque anni rispetto alle previsioni del governo; un Pil che a regime arriva a 2,5% (e una media del 2%) contrastando la tendenza alla crescita debole; un aumento dell’export superiore alla domanda mondiale per recuperare quote di commercio internazionale; un abbattimento di 21 punti del rapporto fra debito pubblico e Pil, scendendo poco sopra il 110%, grazie a un mix di avanzi primari, efficienza della spesa pubblica riorientata agli investimenti, politica dei fattori, compliance fiscale, relazione costruttiva con l’Europa.
Sono i risultati attesi dal “progetto Paese” con cui Confindustria prova a ribaltare il senso di una campagna elettorale finora giocata tutta su rilanci acrobatici su pensioni e spesa pubblica e ha trascurato i terreni più solidi dell’economia reale e del freno al debito pubblico. La proposta degli industriali prova a cambiare l’agenda, per mettere al centro gli obiettivi prioritari – le “mission” – di medio termine che l’Italia deve centrare se non vuole arretrare: occupazione (soprattutto giovanile), crescita (spinta soprattutto da una forte iniezione di investimenti pubblici e privati) e taglio del debito. Lo fa indicando un piano da 250 miliardi in cinque anni e una cassetta di strumenti, percorsi e risorse (nazionali ed europee) necessari per attuarlo. Il piano chiarisce quale sia la posta in palio vera delle elezioni del 4 marzo: cogliere o meno gli obiettivi non è un gioco elettorale, ma cambia il destino del Paese. Un bivio: andare avanti e puntare a essere il primo Paese industriale europeo oppure arretrare e rischiare di ritrovarsi a essere di nuovo l’anello debole mondiale. «Con pochi errori si rischia la crisi sistemica».
Il piano si sviluppa in sei «assi» che raccolgono e sistematizzano misure e indicazioni provenienti dal confronto e dai tavoli tenuti ieri con le imprese: semplificazioni, capitale umano, investimenti ed energia, impresa che cambia, fisco per lo sviluppo, Europa. Le previsioni macroeconomiche del piano sono incrementali rispetto a quelle di finanza pubblica dell’ultimo Def, perché si basano sul presupposto della continuità d’azione degli strumenti pro-crescita già messi in campo, pacchetto Industria 4.0 e Jobs Act in testa. Su questa base, ed è il dato-chiave per capire l’impostazione della ricetta, i numeri messi in moto dalle azioni suonano decisamente meno “alati” di quelli che campeggiano nei programmi dei partiti. Due cifre aiutano a disegnare questo esercizio di realismo: in termini di risorse una manovra chiamata a tradurre in pratica le proposte sarebbe da meno di 16 miliardi il primo anno, e su tre anni cumulerebbe fino a 52,7 miliardi. Ma 14,3 sarebbero europei e altri 6 di cofinanziamento. A quest’ottica pragmatica rispondono anche i numeri della spending review, meno “ambiziosi” di quelli che occupano molti programmi elettorali: l’obiettivo è di 16,8 miliardi a regime (3,5 il primo anno), in base a un target di efficienza dell’1% all’anno su un monte di spesa aggredibile da 360 miliardi (il 45% della spesa pubblica).
I sei assi si muovono del resto su un piano integrato fra Italia ed Europa, mosso dall’emergenza comune del rilancio degli investimenti. Sull’Unione, al centro di un processo di riforma della governance che fra poche settimane entrerà nella fase decisiva, Confindustria rilancia l’idea di un ministro delle Finanze indipendente e dell’emissione di Eurobond per finanziare progetti comuni. Da quella strada, secondo i calcoli confindustriali, potrebbero arrivare fino a 58,5 miliardi in cinque anni, da accompagnare con 30 miliardi di cofinanziamento. Ad alimentare la colonna delle entrate sarebbero però anche i privati, attraverso una compartecipazione alla spesa per servizi progressiva in base a reddito e patrimonio (24,4 miliardi in cinque anni) e nuove misure per convogliare investimenti di fondi pensione, casse e assicurazioni nell’economia reale (15,6 miliardi); azioni mirate di dismissioni degli immobili pubblici completerebbero il quadro. Al fisco, oltre a un recupero di evasione da 15 miliardi annui a regime, toccherebbe prima di tutto il compito di continuare a favorire l’ingresso di giovani al lavoro con la riduzione strutturale del cuneo fiscale (12 miliardi a regime). Risponderebbe invece prima di tutto a un’esigenza di semplificazione l’addio all’Irap, da sostituire con una maggiorazione all’Ires o un contributo compensativo. E i numeri darebbero spazio anche a una riduzione dell’Irpef, da 5,5 miliardi annui da raggiungere nei primi due anni.
Per tradurre davvero queste risorse in investimenti pro-Pil serve una burocrazia che superi il ruolo del puro erogatore di servizi per diventare promotrice di politiche economiche. È necessaria una semplificazione robusta, ma anche la possibilità di rinnovare le forze in campo con un piano pluriennale di assunzioni di economisti, ingegneri, informatici. Anche questo un investimento, da 18,3 mi liardi in cinque anni.