Non c’è niente di peggio che sprecare una crisi, disse il capo dello staff di Barack Obama alla Casa Bianca dopo il crollo di Lehman.
Eppure l’Italia rischia di sprecare la propria, a giudicare dalle promesse dei partiti. Non bastassero le stime sui loro costi, lo fa emergere uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia proprio ora che al voto mancano poche settimane. Con questa scelta di tempo, quel rapporto suona come un programma-ombra: quello che non c’è ma del quale i partiti dovrebbero pur farsi carico nell’interesse dei disoccupati, dei giovani, dei lavoratori in genere e delle imprese.
Per ora non accade e poco importa che la diagnosi di fondo non lasci spazio a equivoci. Il rapporto è fatto di cento dense pagine firmate da dodici economisti della Banca d’Italia, solo formalmente a titolo personale. I dodici, guidati da Matteo Bugamelli, mostrano i passi avanti compiuti e soprattutto quelli che restano da muovere nella prossima legislatura sullo sfondo di un Paese che cambia — scrivono — «al rallentatore». Del resto i problemi sono noti solo in parte in parte e, prima di oggi, ancora meno misurati e discussi. Alla vigilia della crisi in Italia ogni singolo dipendente di una microimpresa con al massimo nove addetti produceva in media 30 mila euro di valore all’anno; oggi ne produce 25 mila, mentre in Francia e Germania si viaggia attorno ai 40 mila. Lo scarto di produttività — l’ingrediente principale dei salari, del lavoro e della sopravvivenza stessa delle aziende — era enorme ed è cresciuto. A maggior ragione perché in Italia queste aziende micro, meno efficienti ovunque, rappresentano la quota da record del 95% del totale nel Paese. All’estremo opposto ogni dipendente di un gruppo da almeno 250 dipendenti in Italia produce in media il doppio: quasi 50 mila euro di valore l’anno, un dato non peggiorato con la recessione ma sempre molto sotto i 65 mila euro di Francia o Germania. Qui lo scarto è reso più profondo dal fatto che la densità di queste imprese più grandi e produttive, in proporzione, è fra due e cinque volte più alta negli altri grandi Paesi dell’area euro. Questi sono i ritardi che relegano l’Italia all’ultimo posto per crescita in Europa anche ora che sul sistema splende un po’ di sole.
I dodici economisti si tuffano nei dati e ne riemergono con un indizio da cui potrebbe ripartire chiunque governi da primavera in poi. Il quadro infatti non è fragile in modo uniforme. Nell’industria, più esposta alla concorrenza sui mercati esteri, da qualche tempo la produttività sta salendo quasi del 2% all’anno; lo stesso indicatore invece resta in recessione ininterrotta in aree più protette come gli studi professionali, il trasporto o i servizi offerti dalle società a controllo pubblico. Contano una tradizione corporativa dura a morire, una certa cultura d’impresa e la storica diffidenza degli italiani, caso unico in Europa, a crescere e coinvolgere nelle proprie aziende dei manager professionisti. Contano però anche leve che un governo può muovere direttamente o quasi: hanno aiutato fin qui il Jobs act, gli sgravi alla ricerca o quelli di Industria 4.0, riconoscono i dodici.
Poi però lo studio di Banca d’Italia, quasi indicando il suo programma-ombra, indica ciò che resta da fare come «priorità politiche». C’è certo da affrontare l’inefficienza della pubblica amministrazione, che «riduce l’impatto delle riforme già fatte» (anche nel gestire fallimenti e insolvenze in banca); e resta soprattutto da muovere il secondo passo nella revisione delle regole sul lavoro, portando la definizione dei contratti dentro le aziende per allineare i salari alla specifica produttività di ogni situazione. Lo si fa in Germania e nei Paesi scandinavi, lo si inizia a fare anche in Francia.
Gli economisti di Banca d’Italia mostrano come la pesante dose in più di Grande recessione subita in Italia sia il precipitato di un «decennio perduto» (2000-2010) in una struttura produttiva nazionale pensata nell’illusione del controllo, non con l’obiettivo dell’efficienza. Cento pagine che, in silenzio, gridano alla politica di non perdere altri cinque anni.