In varie dichiarazioni in questi giorni è spuntato fuori, in materia di Pil, l’obiettivo dell’incremento del 2%. Ne ha parlato per primo il ministro Pier Carlo Padoan e ieri gli ha fatto eco il collega Carlo Calenda, quanto a Matteo Renzi lo aveva addirittura già previsto per il quarto trimestre ‘17 fermatosi in realtà all’1,6%. Ma quota 2%, pur depurata dall’enfasi della campagna elettorale, è realistica? Purtroppo l’economia reale non pare in grado di coprire la distanza tra i risultati conseguiti finora e la meta indicata dai ministri. Il motivo numero uno, e anche il più semplice da argomentare, rimanda alle favorevoli condizioni di contesto che abbiamo avuto nell’anno passato e che risulta difficile clonare nell’anno in corso. C’è da fare i conti con l’insieme dei «fattori macro» (cambi, tassi, politiche fiscali) che finiranno per determinare quantomeno un piccolo rallentamento della crescita, a cui va aggiunta la variabile legata all’assai probabile ciclo di instabilità politica del dopo-elezioni.
Ma torniamo all’economia reale. Siamo usciti dalla Grande Crisi con una ripresa che ha via via guadagnato decimali dovuti al ciclo di rinnovo del parco macchine dell’auto e alle esportazioni, driver ai quali successivamente si sono aggiunti la ripartenza degli investimenti legati agli incentivi 4.0 e gli ottimi risultati del turismo. È possibile da queste tendenze aspettarsi ancora di più? Le vendite di auto hanno dato vita in questi anni a uno spettacolare ciclo espansivo e nel ‘17 le immatricolazioni tirate dall’immarcescibile Panda hanno fatto segnare +8% sull’anno precedente. Le previsioni per il ‘18 sono ancora di crescita ma non allo stesso ritmo (si parla di +4%). Un colpo di acceleratore per il Pil potrebbe arrivare dall’abbinata incremento dei salari e boom dei consumi ma un combinato disposto di questo tipo è legato a sua volta a una decisa accelerazione nel recupero di produttività. È un’ipotesi credibile? Purtroppo no, ci sarebbe stato bisogno, per tempo, di un’azione convinta delle parti sociali tesa a dar vita a una stagione di contrattazione aziendale di questo tenore ma non è stato così. E l’annunciatissimo patto della fabbrica tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil ancora non si è visto. Gli operatori sono orgogliosi dei risultati della stagione turistica («la migliore estate degli ultimi 10 anni»), sarebbe però già un piccolo miracolo bissare le performance del 2017. Per di più non abbiamo messo fieno in cascina e utilizzato gli extra-proventi del 2017 per quell’ammodernamento delle strutture di cui c’è urgente bisogno e quindi venderemo nel ‘18 lo stesso identico prodotto dell’anno prima.
E l’export? Sarà il made in Italy a darci quel mezzo punto che ci manca per arrivare al 2%? Nel 2017 è cresciuto ancora del 7% ma le previsioni Sace per i prossimi 4 anni si fermano a un 4% annuo, non di più («il 2018 è un libro con pagine tutte da scrivere»). La segreta speranza degli osservatori resta sempre legata al ciclo dell’edilizia, che essendo pressoché crollata in questi anni è sempre attesa a una resurrezione ma onestamente tutto ciò è catalogabile alla voce «auspici» più che a quella «previsioni». L’intero mattone avrebbe bisogno di una rifondazione di modelli di business e culture, prospettiva che non appare così immediata. Un ragionamento analogo investe l’agricoltura – Cenerentola del Pil secondo i dati Istat di ieri – ma anche in questo caso ci vorrebbe la forza di implementare politiche capaci, tra le altre cose, di risollevare la remuneratività del settore. Qui però siamo addirittura alla voce «sogni».