Finisci di leggere le seicentosessanta pagine che compongono “Homo Deus”, l’ultimo lavoro di Yuval Noah Harari, autore nel 2014 del best seller “Sapiens. Da animali a dei”, e rimani un po’ stordito. Da una parte il giovane storico israeliano ti ha condotto attraverso gli ultimi 70.000 anni dell’umanità facendoti vedere tutti i progressi, dall’altra ti fa intravedere uno scenario in cui l’uomo diventa un giocattolo con cui divertirsi.
Immortalità e felicità si toccano
Ci sono poche cose che nella vita di oggi ti fanno ritornare con i piedi per terra. Una di questa è la morte di una persona che conosci o di un tuo caro. Ed è il funerale il momento in cui rifletti – gioco forza – sul senso della vita. Fai i conti con te stesso e con quello che stai facendo. Ti trovi in una situazione simile al primo giorno dell’anno, il giorno dei buoni propositi: “non devo fare questa cosa”; “devo fare di più questa cosa”. A questo punto dovrebbe essere obbligatorio partecipare ad un tot di funerali all’anno. Attenzione però: devono essere funerali sufficientemente di lunga durata. Per riflettere ci vuole tempo. Se il funerale dura meno di 20’, c’è il rischio che questo spazio non sia sufficiente a generare una seria riflessione. E se la morte non fosse più un affare di questi tempi? Non c’è alcun dubbio che l’aspettativa di vita si sta innalzando. L’infinito dibattito sulle pensioni ce lo ricorda. Oggi le morti premature in età infantili sono praticamente scomparse e arrivare a novant’anni è oramai abbastanza naturale. Dare ad un aitante settantenne del “vecchio” è un insulto. Ma qui non stiamo parlando semplicemente di spostare in là la data in cui una persona cessa di essere umano, stiamo parlando della possibilità di non avere questa tappa nella propria vita. Impossibile? La risposta potrebbe essere sì, oppure, perché no. In fondo l’uomo ha abbattuto talmente tante barriere lungo la sua storia che potrebbe un giorno arrivare a questa nuova dimensione. Le scoperte mediche sono all’ordine del giorno, la medicina preventiva sta facendo miracoli.
L’immortalità non può che essere considerato il progetto più importante di questo secolo. Non è questa la sfida che team di scienziati potrebbe giudicare più affascinante che mai? Da qualche parte qualcuno ci sta pensando (es. il progetto www.2045.com) e lavorando. L’altro grande cantiere del genere umano è il raggiungimento della felicità. La si può declinare in tanti modi: salute, soldi, affetti…Non è un caso che nella Costituzione del più grande paese al mondo, gli Stati Uniti, la ricerca della felicità sia un caposaldo. La nostra società punta in tutti i modi a darci pezzi di felicità. E’ lo scopo massimo del sistema in cui viviamo. La felicità si muove attraverso due pilastri: uno psicologico e l’altro biologico. Dal punto di vista psicologico arriviamo alla felicità quando le nostre aspettative sono raggiunte; dal punto di vista biologico la felicità è uno stato piacevole all’interno del nostro corpo. Purtroppo, però, queste due vie sono destinate a diventare sempre più difficili da raggiungere perché le aspettative quando raggiunte richiedono nuove tappe e gli stati di piacevolezza del nostro corpo sono destinati ad avere tempi definiti. Montale nel 1924 ha scritto un verso memorabile: “Felicità raggiunta, si cammina/ per te sul fil di lama./ Agli occhi sei barlume che vacilla,/ al piede, teso ghiaccio si incrina;/ e dunque non ti tocchi chi più t’ama”. Scrittori, filosofi, psicologi non hanno mai creduto di poterci arrivare. Ecco perché uno stato di felicità permanente diventa l’altro grande obiettivo da raggiungere. Da questi due assunti parte “Homo Deus”: la nostra società sta lavorando per raggiungere l’immortalità e la felicità permanente innalzando gli uomini ad un rango di divinità attraverso la reingegnerizzazione dei nostri corpi e delle nostre menti.
L’algoritmo biologico
In una forma di sincretismo, che va dalla genetica, alla letteratura, dalla filosofia alla tecnologia, Harari dimostra le sue grandi capacità di narratore e di indagatore conducendoci in un percorso in grado di disegnare quello che lui definisce “possibilità più che profezie”. Il filo conduttore rimane la storia quale elemento che potrebbe permetterci non tanto di capire che cosa scegliere quanto di avere un quadro in cui scegliere tra diverse opzioni. La rivoluzione agricola, avvenuta circa 10-12.000 anni fa, è uno dei punti fondamentali per capire l’evoluzione dell’uomo e quindi, l’evoluzione del suo algoritmo biochimico. Si perché Harari fa propria la visione scientifica che l’uomo sia un insieme di algoritmi. Che cosa è un algoritmo? “E’ un insieme ordinato di istruzioni che possono essere usate per fare dei calcoli, risolvere problemi e prendere decisioni. Un algoritmo non è un particolare calcolo, ma il metodo seguito per fare il calcolo”. Le stesse emozioni e sensazioni che proviamo ogni momento sono degli algoritmi che, proprio perché siamo frutto di un lungo processo evoluzionistico, sono non molto dissimili a quelli degli altri animali.
La rivoluzione agricola non è stata solo una modalità diversa di procurarsi il cibo perché ha creato una rivoluzione religiosa in cui l’uomo e Dio si sono confrontati, si sono rispettati, si sono amati. Nel cast le parti erano divise: l’uomo progrediva lentamente e non si poneva grandi domande; Dio, attraverso le scritture, rimaneva immobile e forniva un set di risposte automatiche. Accadeva un evento meteorologico straordinario? C’era un versetto della Bibbia per poter decifrare il fatto. Succedeva un avvenimento familiare? C’era un versetto della Bibbia che guidava l’uomo nella sua quotidianità nella sequenza chiara tra bene e male. La rivoluzione scientifica e la conseguente rivoluzione industriale hanno modificato il copione del film: Dio via via si è dileguato e da attore indiscusso è diventato un attore minore (la fine della trascendenza) mentre l’uomo ha preso tutta la scena cominciando una lunga marcia che lo sta portando alla “sua divinizzazione”. Come in una fiction prodotta da Netflix in cui vi è un numero considerevole di puntate che avvolgono il globo, la rivoluzione scientifica ha dato battaglia all’ignoranza, in tutti i suoi aspetti, e ha reso l’uomo sempre più forte dei suoi mezzi. Non c’è stato un momento specifico, ma è come se l’uomo ad un certo punto della fiction avesse deciso di togliersi la corazza che lo proteggeva, e gli impediva di muoversi liberamente, per diventare un individuo, che poteva fare da sé. Come non vedere nel tanto propugnato “personal branding” una forte spinta nella creazione di un prodotto avente come nome “Io S.p.A.” che va verso l’unicità e l’autoconvinzione di essere un “Dio”?
Coscienti incoscienti
Da leggere è la parte in cui Harari dedica intere pagine all’assenza dell’anima nell’uomo che la contrappone alla mente cosciente dove si formano le esperienze soggettive quali “il dolore, il piacere, la rabbia e l’amore”. Sta in questa assenza – dell’anima – e presenza – dell’esperienza cosciente – la grande differenza tra noi e i robot: “Ogni esperienza soggettiva ha due caratteristiche: sensazione e desiderio. I robot e i computer non hanno coscienza di sé poiché, nonostante le loro molteplici abilità, non provano nulla né desiderano alcunché. (…) ecco perché diciamo che gli uomini sono consapevoli mentre i robot non lo sono”. La consapevolezza che fa da spartiacque tra uomo e robot potrebbe essere l’unica differenza che ci divide. Uno come Federico Faggin, che nei primi anni settanta ha creato in Intel il primo microprocessore, e oggi si sta dedicando ad una serie di studi sull’intelligenza artificiale, in una recente visita nella sua terra natia Vicenza, ha dedicato una serie di conferenze alla città (su Youtube si trova uno straordinario video in cui parla ai ragazzi del Liceo Quadri).
La sua visione coincide con Harari: l’uomo non potrà mai essere in grado di riprodurre la consapevolezza con gli atomi e le molecole che conosce (il neuroscienziato Christof Koch ritiene possibile che il web abbia già acquisito consapevolezza di sé, anche se non ce ne siamo ancora accorti). Qui però le visioni tra Faggin e Harari, se coincidono nella non riproducibilità della consapevolezza, divergono perché mentre Faggin fa mantenere all’uomo la superiorità rispetto all’intelligenza artificiale, Harari compie un esercizio che va oltre la consapevolezza quale distintività. Per Harari, infatti, l’uomo sarà battuto, e rischia seriamente di diventare un servo dell’intelligenza artificiale, perché non importa se i computer saranno coscienti o meno “a contare sarà soltanto l’opinione della gente al riguardo”. Non sarà importante quanto tu senti, ma quanto gli altri vedono nelle tue azioni ed è questo che darà al mondo un suo significato: “Fino ad oggi un’intelligenza acuta è sempre andata di pari passo con una coscienza evoluta. (…) Ma oggi stiamo sviluppando nuovi tipi di intelligenza non cosciente che possono portare a terminare compiti che richiedevano notevoli capacità intellettive in modo assai più efficace degli umani”. Ritorniamo per un attimo alle emozioni, cosa che ci contraddistingue dall’intelligenza artificiale. Sicuramente la scorsa estate ci è capitato di essere davanti ad uno spettacolo della natura, un tramonto al mare, lo splendore delle montagne in una giornata libera di nubi, in quell’istante la tentazione fortissima è stata quella di condividere quel momento sui social media. Per qualcuno questa operazione è stata parte dell’emozione, per qualcuno senza la condivisione non vi sarebbe stata l’emozione stessa. Per Harari il significato non sta più in quello che sento io, ma in “quello che sento con gli altri”.
L’algoritmo non organico ti conosce di più
Gli algoritmi biochimici saranno surclassati dagli algoritmi non organici e saranno in grado non solo di fare operazioni che gli umani non riescono a condurre ma potranno prendere in mano le loro vite e condurle a vivere senza scelta. Un algoritmo esterno potrebbe conoscere i nostri desideri molto meglio di come possa conoscere me stesso. Un algoritmo che monitora tutti i sistemi attivi del corpo e del cervello è in grado di predire e anticipare prima ancora che io sia cosciente di quanto sta accadendo. Due esempi. Nel 2013 l’attrice Angelina Jolie si è sottoposta ad una duplice mastectomia. Sua madre e sua nonna avevano avuto un tumore al seno e ne erano rimaste vittime in giovane età. I test genetici compiuti sull’attrice, hanno confermato anche per lei un forte rischio di sviluppare il seno. Jolie non aveva un cancro al seno, ma ha deciso di prevenire compiendo una scelta difficile che poteva anche esserle fatale. Prima di questo intervento la Jolie non aveva avuto nessun sintomo, stava benissimo, solo accurate analisi le hanno diagnosticato una possibile “bomba ad orologeria” dentro se stessa. Gli algoritmi non organici hanno consigliato alla Jolie di intervenire sul suo algoritmo organico. 100 anni fa, ma forse anche soli 10 anni fa, questo non sarebbe stato neppure immaginabile.
Cosà succederà quando tutti noi avremo dispositivi wearable, oppure conficcati sotto pelle, che monitoreranno costantemente il nostro corpo? Personalmente ho sempre pensato di avere una buona capacità di orientamento. Arrivato in una città, fino ad allora sconosciuta, mi bastavano poche dritte e una cartina per orientarmi perfettamente. Oggi non è più così. Ho perso una competenza spaziale. Non solo non so orientarmi ma ho il bisogno costante di consultare Google maps. E se un giorno Google maps agganciata a Google flu, mi dicesse che non è opportuno andare non solo in quella direzione ma anche a trovare un amico perché ha l’influenza (Google flu lo sa perché conosce chi la persona ha incontrato nei giorni precedenti e se nel frattempo è andato in farmacia)? A quel punto tutti noi non saremo più degli individui autonomi perché saremo condotti per mano da sistemi esterni a noi che sono in grado di prevenire e guidare le nostre esistenze.
Internet of humans
Oggi si parla molto di internet of things quando si affronta il tema dell’industry 4.0. Il prossimo passaggio sarà l’internet of humans, un’enorme flusso di dati generati dalle persone. Il “datismo” per Harari è profondamento radicato in due discipline: l’informatica e la biologia. La gente vuole solo fare parte di questo flusso di dati in cui l’individuo sta diventando un piccolo chip all’interno di un sistema incomprensibile e non dominabile: “Il passaggio da una visione del mondo antropocentrica a una datacentrica non si limiterà a essere una rivoluzione filosofica. Sarà una rivoluzione pratica. (…) Le idee cambiano il mondo soltanto quando cambiano il nostro comportamento”. Il capitalismo ha sconfitto il comunismo perché la distribuzione delle informazioni si dimostrò ampiamente più efficiente del meccanismo di centralizzazione adottato dall’Unione Sovietica. Il data-ismo sconfiggerà lo stesso capitalismo, che lo ha generato, e i sistemi democratici come oggi li conosciamo? Certo nessuno è in grado di prevedere il futuro con esattezza perché – fortunatamente – gli eventi storici e la tecnologia non sono deterministici. Se va sottolineata una forzatura nel lavoro di Harari sta proprio nel troppo determinismo. Salvo anche lui cercare di avvisare i naviganti che qualcosa si può cambiare nel momento in cui oggi avere potere significa saper che cosa ignorare.
Titolo: Home Deus. Breve storia del futuro
Autore: Yuval Noah Harari (traduzione di Marco Piani)
Editore: Bompiani
660 pp; 21,25 Euro