“Economia e società” è una delle principali opere di Max Weber. Pubblicata postuma dalla moglie del sociologo della modernità, tratta un insieme molto ampio di temi comparativi: ceti, stati, classi, gruppi etnici, famiglie, clan da una parte; economie, città, religioni, e organizzazioni dall’altra. È una storia sociologica del mondo che riesce a muoversi tra una continua formulazione di modelli teorici e una rigorosa attenzione ai dettagli attraverso numerosi casi storici. Due indicazioni, tra le tante, emergono in modo chiaro: la costruzione di modelli ha sempre spiegazioni multicausali; l’agire sociale diventa sociologicamente interessante soltanto entro raggruppamenti relativamente delimitati di individui. “Nel Paese dei disuguali”, l’ultimo libro di Dario Di Vico, è chiara l’impostazione weberiana della sua indagine. Pensare all’Italia in modo olistico, cioè come un’entità organica, e raggruppata per classi sociali, è un’operazione fuorviante che non fotografa i segnali forti, e deboli, che il nostro Paese ci sta inviando. Se Weber fosse ancora in vita, probabilmente considererebbe il libro di Di Vico materiale altamente utile per aggiornare “Economia e società”. Di Vico prende fin da subito le distanze dalle scorciatoie che “oggi appaiono più dei vicoli ciechi” o forse utili a fare i titoli dei giornali ma non le analisi che dovrebbero condurci ad una pluralità di azioni concrete. Infatti, pensare che il solo PIL possa ridurre le diseguaglianze e “salvarci dal populismo” appare un’illusione per quelli che non vogliono vedere la realtà di fronte all’evidenza. Il 2017 è stato l’anno che ha confermato la ripresa economica, nonostante ciò il sismografo dell’insoddisfazione e della rabbia ha segnato sempre una forte oscillazione. Il viaggio compiuto “Nel Paese dei disuguali”, è una continua operazione di carotaggio nelle aree dell’Italia e nei diversi ceti (da intendersi in modalità weberiana). Ne esce un quadro più simile ad un patchwork, dai colori diversissimi e tra loro in contrasto, più che un puzzle. Il frastagliamento sociale è presente tanto nel Sud, sempre più simile ad un insieme di zattere alla deriva, che nella capitale economica trasformatasi da “Milano da bere” a “Milano da mangiare”. Il cibo è, infatti, una delle chiavi di lettura della città dei “Milaners” (in similitudine ai Londoners che tanto si sono differenziati con il resto del paese nella vicenda Brexit). Mai come in questo momento la città vive una dimensione gastronomica fatta di una grande ricchezza in termini di offerta, dove il vegano è solo una punta dell’iceberg, e contemporaneamente vi è una presenza, che non ha pari nel resto del Paese, di nuovi sistemi di consegna del cibo a domicilio.
Gli operai non fanno squadra
Neppure gli operai, che fino a qualche tempo fa si davano in via di scomparsa, si sottraggono ad una continua riclassificazione. Proprio loro che hanno fatto della distintività la loro forza contrattuale, oggi sono separati dalla nascita e non riescono più a ricongiungersi: gli operai cognitivi, che hanno maneggiato il kaizen e ora l’Industry 4.0; gli operai fordisti, che rimangono a presidiare la linea di montaggio priva di particolare valore aggiunto; gli operai proletari, che non entrano dai cancelli principali delle fabbriche e che sono destinati a smistare nei centri logistici i prodotti fatti dalle prime due categorie. In questa Italia neppure la lingua è il comun denominatore. Le donne milanesi hanno sempre più una vocazione a coprire le fasce alte dei lavori, con una conseguente dimestichezza per l’inglese più che per l’italiano; mentre le rumene della provincia di Ragusa si confrontano con il dialetto locale nel loro essere sfruttate sia per il lavoro nelle serre che per il sesso che sono costrette a “regalare” ai padroncini dell’area. Anche i cinesi, in una distanza compresa dentro i 300 km, tra Prato e Milano, si muovono con traiettorie completamente diverse: a Prato fanno la guerra dei costi ai cinesi in patria; a Milano si sono insediati acquisendo la Pirelli e le due glorie calcistiche (Milan ed Inter).
I sogni rimangono, la realtà pure
Il web sta diventando il luogo dove le persone si informano. Facebook e Google sono i magazzini dove si ammassano le notizie senza una precisa catalogazione né identificazione del valore. Ai giornali tradizionali rimane un ruolo marginale legato più alla tradizione dei lettori che alla necessità di trovare cornici dove inserire le diverse news. Ma anche i giornali ormai contengono di tutto, forse pensando che l’offerta (quasi) smisurata possa portare più lettori (errore). Pochi, quindi, i giornalisti che riescono a dare una lettura compiuta di quello che sta avvenendo nella pancia del nostro Paese. In questa categoria, Dario di Vico rimane un desaparacido dell’informazione. Uno che dimostra, ancor più con “Nel paese dei disuguali”, quanto lavoro, delicato e urgente, vi sia da fare perché le faglie della diseguaglianza – se non altro – non si allarghino. Ma i soli segnali che la società ci rimanda non riescono a spiegare il malessere che avvolge l’Italia. Stiamo vivendo un’epoca che è segnata da una deprivazione relativa “egoistica” e “fraternalistica”. Quest’ultima, in particolare, è tipica di quella percezione che il proprio gruppo di appartenenza sia stato defraudato rispetto ad una condizione ideale agognata. Il tema è il rapporto tra aspettative soggettive (passate) e condizioni oggettive (attuali). Quando le due situazioni non riescono a toccarsi, in questa distanza si crea un sentimento di mancanza, “una sensazione di vuoto che ha permesso alla deprivazione relativa di scavare in profondità, come la vecchia talpa”. Il periodo che va dagli anni ’60 agli anni ’80 ci aveva consegnato un Paese dove tutti i sogni erano possibili; dal 2008 in poi si è cominciato a pagare la cambiale più di quello che la crisi ci ha imposto. Due sono le tendenze in atto che Di Vico sottolinea, apparentemente opposte:
“A) le aspettative di inclusione e mobilità sociale sono rimaste comunque alte nonostante il ciclo economico fortemente avverso le sconsigliasse; B) le chance di soddisfare le premesse sono precipitate determinando quindi quel sentimento di sconfitta che oggi ha il potere di condizionare la stabilità/legittimità stessa dei sistemi occidentali.”
Questa situazione è tipica di una società – occidentale – diventata opulenta, nel suo insieme, globale, nella sua dimensione, e molto diseguale nelle sue differenze.
+ o -: le nuove polarità
Il libro si muove su tre diversi asset: “geografie”, con i suoi diversi Nord; “persone”, con la riconfigurazione anche in chiave tecnologica dei diversi ceti; “generazioni”, con il riassetto sociale dei giovani e dei vecchi. Evidentemente lo tsunami che tutti stiamo vivendo ha radici profonde che si diramano in varie parti del terreno dove la distribuzione mondiale del lavoro ha giocato un ruolo fondamentale. In questo senso il nostro Paese ha pagato un dazio molto elevato alla diseguaglianza. Di Vico affronta marginalmente in questo libro, come una delle possibili cause, il valore della potenza distruttrice della tecnologia. L’analisi è più dedicata a quello che nella teoria economia classica viene definito “vantaggio comparato” (anche chiamato modello “ricardiano”): un paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un vantaggio rispetto agli altri, cioè su quelle attività che sa fare meglio. Un paradigma, evidente in molti settori produttivi, che ha generato il fallimento di chi non riusciva a rispondere a questa nuova sfida che va oltre al semplice Made in Italy. Questa motivazione di carattere economico è stata la risposta alla Cina, ma ha generato uno dei principali elementi della polarizzazione che si è manifestata, ad esempio, nel Nordest: coesistenza a poche centinaia di metri di aziende che vanno malissimo con aziende che non vanno benissimo. È quel 20/60/20 che Di Vico esemplifica nel 20% di imprese-lepri; 60% di aziende che stanno a metà del guado; il restante 20% sono quelle realtà che non hanno capito questa modernità. In questo senso, c’è da chiedersi se un Paese è in grado di reggere la competizione globale a traino di una piccola locomotiva. Come rimane tutta da risolvere la questione di Milano, e l’accumulo di energia che ha in sé introitato, e il suo rapporto con il resto del “contado”, compreso quello del Nordest. Non tutto è spiegabile in chiave economica, non a caso Weber aveva chiamato la sua opera con il binomio “economia e società”. Ed è da questo binomio che vanno ricercate le possibili vie di uscita. In primis, vanno rimesse in comunicazione proprio l’economia con la società attraverso quelli che Di Vico chiama i “valori caldi”. “Il Paese dei disuguali” è un libro che i politici dovrebbero divorare, visto che, ad un basso costo, ha il valore di una compiuta ricerca sociologica, ma è anche un testo che gli imprenditori e i manager dovrebbero avidamente leggere perché contiene precise direttrici di intervento per un possibile posizionamento delle loro aziende.
Titolo: Nel Paese dei disuguali
Autore: Dario Di Vico
Editore: Egea
147 pp; 16 Euro