Inutile girarci intorno. Leggere di “malavitosi e arroganti” ha avuto per molti manager l’effetto di una sberla in faccia. Sui social, in particolare su LinkedIn, si è scatenato un putiferio. Luciano Benetton, lo scorso 30 novembre, non poteva rilasciare un’intervista più spregiudicata e irriverente nei confronti di quelli che in questi anni hanno gestito la sua azienda: manager e figli non hanno capito nulla di quello spirito colorato che Benetton era, e adesso, secondo il fondatore, si è perso. Non solo non hanno saputo interpretare l’idea iniziale che aveva fatto grande il marchio Benetton, ma hanno distrutto un’azienda facendo gli “imboscati”. Alla fine dell’articolo pensavo ai tanti colleghi che in quell’azienda hanno dato anima e corpo per tentare di farla uscire dal tunnel. Pensavo alla girandola infinita di Amministratori Delegati che si sono susseguiti in questi anni dalle parti di Ponzano. Pensavo a quel distretto trevigiano della maglieria che ha perso tante delle sue competenze.
Luciano ha ragione
E se invece Luciano Benetton avesse ragione? E se il “j’accuse” fosse rivolto a tutta la classe manageriale di questo Paese? In fondo la crisi delle due banche venete ha una matrice profondamente manageriale. Non si può pensare che siano cadute in disgrazia semplicemente per volere degli imprenditori. Se le c.d. “baciate” sono state i virus, i premi variabili costruiti per le funzioni dirigenziali (MBO), che erano collegati alla vendita delle stesse, sono stati gli agenti di trasmissione dei virus. Chissà mai cosa si dicevano i colleghi dirigenti bancari mentre discutevano annualmente la loro performance review. Qualche “sottoposto” avrà mai avuto il coraggio di dire al proprio capo che certe pratiche erano eticamente scorrette? I migliori strumenti (performance management, analisi delle posizioni, coaching, assessment center…), creati da blasonate società di consulenza milanesi, erano operativi in queste organizzazioni, eppure nulla emergeva. Anzi, sembra che l’applicazione di tanta strumentazione manageriale fosse una garanzia che tutto funzionava perfettamente e nulla fosse fuori posto. Nell’intervista di Luciano Benetton una cosa non manca: la passione per il prodotto, l’amore per la propria azienda. Categorie – passione e amore – che la classe manageriale usa abitualmente? Quante volte vediamo “grigi figuri” girare per le organizzazioni che hanno in mente solo la sopravvivenza del loro posto? Dov’erano tanti di quei dipendenti che nelle varie assemblee hanno votato sempre compatti “la lista del Presidente”? Nel lontano 2001 Aronne Miola e Franco Masello proposero una lista alternativa a quella di Zonin, fu bocciata perché il Presidente, con un blitz, compattò i voti dei dipendenti e la contro-scalata finì miseramente. Nulla di scandaloso e nulla di nuovo. Basterebbe andare a ri-leggersi “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (Newton Compton Editori) di Sigmund Freud, scritto nel 1921, per capire come le organizzazioni si identificano nei propri leader stringendosi contro gli avversari. O basta leggersi l’ultimo libro, “Notturni inquieti”, di Pier Luigi Celli.
La gabbia degli scimpanzé
Celli lo potremmo definire un “boiardo di Stato”. Uno che è stato dirigente in Eni, Omnitel, Enel, Rai, Enit per poi passare a ruoli di senior advisor in Unicredit, Poste Italiane e oggi sedere in più di qualche board di importanti società. Celli non è nuovo alle prove di scrittura. Lo seguo da molti anni. Ha sempre svolto, per il sottoscritto, una funzione critica fin dal 1994 quando – per caso – mi sono imbattuto ne “Il manager avveduto” (Sellerio). Celli compie nei trentatré racconti che compongono il libro, un esercizio talvolta onirico, talvolta metaforico, talvolta tanto vero da essere falso. In realtà, lui quelle cose in azienda le ha viste, le ha fatte o ha avuto l’abilità di cavalcarle. Per questo motivo, in un atto di purificazione, decide di narrare i mezzucci con cui si gestiscono le imprese di ieri e di oggi. Il tratto comune che ne emerge è la “miseria”, la pochezza dei vari manager protagonisti. Parassiti, circensi, ragionieri dei conti persi, leccapiedi, specialisti del nulla e tuttologi dello strafare. Gente che possiede un alto senso di responsabilità in grado di trasformarsi in una mera difesa del proprio spazio e della propria autostima. Siamo di fronte ad una tipica eterogenesi dei fini dove tutti hanno dignità nel quotidiano affresco organizzativo. Se per l’antropologo Desmond Morris “la città è uno zoo umano”, per Celli l’azienda potrebbe essere “la gabbia degli scimpanzé”. La conclusione è amara: la classe manageriale non può tirarsi fuori dall’inconsistenza della classe borghese di questo Paese. Insomma, un libro in cui Luciano Benetton troverebbe tanta materia per dare conferma alle sue tesi. O forse non dovrebbe fermarsi qui. In realtà, Luciano Benetton – temo – non ha alcun interesse a leggere un libro di questo tipo. Non ha alcuna voglia di “redimere” i manager, di “portarli sulla retta via”, di farli parte di un progetto d’insieme. Peccato perché se l’azionista fa bene il suo ruolo, anche i manager riescono a dare il meglio di se stessi. In quell’intervista, al netto della filippica sulla classe dirigenziale, manca una qualsivoglia autocritica sul ruolo avuto dalla famiglia (quella dei fondatori). Una corretta corporate governance manageriale, come sottolineato in molti studi sul tema (Diane K. Denis 2001), viene preservata attraverso il bilanciamento di quattro principali strumenti: assetto proprietario, sistema di incentivazione manageriale, organi di controllo (in primis il board) e struttura finanziaria. In tutti questi elementi, dove gli azionisti sono comunque l’asset principale, il collante è la cultura aziendale. Infatti, come scrive Celli – “la cultura – aziendale – ha infinite risorse, proprio quando l’organizzazione rivela la povertà delle sue”. E la cultura nasce sempre dai valori che gli azionisti incarnano e che sanno trasmettere. Per mantenere accesa la cultura in un’azienda non serve essere presenti tutto il giorno sullo scranno del comando. Anche se si va in giro per il mondo in barca o ci si appassiona al restauro – come tenta di discolparsi Luciano Benetton nell’intervista -, la cultura in azienda la si può aggiornare, monitorare e tener viva lo stesso.
Un libro non per giovani amazzoni
“Notturni inquieti” è venato di pessimismo, come se una storia migliore ci fosse stata. Quanto di più falso. Il passato aziendale non era migliore del presente, era solo più nascosto e frastagliato. A Luciano Benetton consiglierei di leggere due racconti: Seconda Storia: “L’erede”; Trentesima Storia: “Alla McKinsey non chiedere il perché”. Non sto qui a raccontare di che cosa parlano ma non fatevi ingannare dal titolo: la faccenda è più intrigante di quella che si può immaginare. Chi avrà la voglia di leggerli troverà i suoi perché. Celli, fra le sue tante abilità, ha la capacità di avere una scrittura ironica che sa diventare, quasi ad ogni frase, un aforisma. Un’arte sopraffina che pochi hanno. In Italia l’ha posseduta gente come Leo Longanesi, Ennio Flaiano o Giuseppe Prezzolini. Celli, nella categoria “azienda”, si può ben inserire tra questi “grandi”. Questo è un libro che merita di essere letto da tutti i frequentatori delle organizzazioni, nessuno escluso, siano essi consulenti, che dirigenti. Per i “capi del personale” dovrebbe essere un atto dovuto, quasi imposto a chi assume questo ruolo. Celli, infatti, per gran parte della sua vita professionale ha fatto questo mestiere. Lo ha fatto a grandi livelli e ha respirato i diversi gradi di inquinamento che si annidano nei palazzi buoni del potere aziendale. Ho come l’impressione, però, che questo sia un libro che non può essere letto da giovani alle prime armi, ma da soggetti che hanno già sviluppato qualche anticorpo. Il rischio è quello di rafforzare quella scorza cinica che già più di qualcuno di noi – essendo anch’io appartenente a questa categoria – possiede più o meno naturalmente. La somministrazione del testo andrebbe promossa dopo il break fast, ma prima dei pasti principali, cioè dopo aver svolto qualche anno di attività in un ufficio risorse umane, ma prima di essere investito del ruolo perché – come afferma Celli – “la carriera non è adatta a spiriti delicati”. “Notturni inquieti” ha come filo conduttore il sogno, e il suo brusco o dolce risveglio. In realtà “i sogni più veri” sono quelli che facciamo da svegli. Quelli che nella nostra testolina non riusciamo neppure a fare passare dalla parte destra alla sinistra del nostro cervello per pigrizia o per pudicizia. Per questo il libro di Celli deve essere letto con tutte le avvertenze del caso. In fondo in fondo anche le favole per bambini talvolta necessitano di essere spiegate dai genitori. Come quella di “Sansone e i filistei” che tra le tante morali ne ha una di certa valida per le aziende: o si vince tutti o si muore tutti (azionisti e manager).
Titolo: Notturni Inquieti
Autore: Pier Luigi Celli
Editore: Aliberti compagnia editoriale
231 pp; 17 Euro