Quando si osserva un’opera di Pollock, di Klee o di un altro pittore astrattista, l’affermazione che tutti facciamo è del tipo: “potevo farlo anch’io questo quadro!”. Subito dopo sorge, invece, una domanda: “ma che cosa vuole dirci il pittore?”. Alla prima affermazione stanno provando a dare delle risposte gli informatici. La Lawrence Technological University e l’Art and Artificial Intelligence Laboratory della Rutgers University ci sono riusciti. L’algoritmo è in grado di riprodurre il dripping (sgocciolatura) di Pollock. Allo stesso tempo risulta facile, sempre tramite l’algoritmo, scoprire se il quadro è vero o falso. Ma la cosa più interessante di questi esercizi tecnologici, sta nel capire se un’altra persona sia in grado di riprodurre esattamente il quadro. La risposta è negativa.
Una persona è in grado di imitare il gesto con cui Pollock ha prodotto il dipinto, non è, però, in grado di farlo in modo uguale perché ogni individuo muove il suo corpo in modo differente. La tecnica usata dall’artista richiedeva un uso non solo delle braccia visto che il suo sgocciolamento era fatto sia camminando che inchinato sulla tela stessa. Quindi, nessuno umano è in grado di riprodurre un quadro di Pollock. Se poi affrontiamo il campo delle emozioni che hanno spinto l’artista, siamo ancor più nel campo dell’irriproducibilità. E su questo gli algoritmi non possono metterci mano. Semmai, la tecnica del dripping può essere usata da qualsiasi persona per fare il “suo quadro”, cioè per fare il download sulla tela delle sue emozioni.
L’astrattismo si fa post moderno
L’astrattismo ha come primo divulgatore il pittore russo Wassilj Kandinskij a Monaco dove aveva fondato il movimento espressionistico “Der Blaue Reiter”. Nelle arti figurative il concetto di astratto assume il significato di “non reale” perché non rappresenta la realtà. L’arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra esperienza visiva non avendo un obbligo di imitazione, di copia. L’arte astratta nasce attorno al 1910, e non è un caso. Certo, era già presente in molta produzione estetica precedente, anche molto antica. Lo stesso Pollock, secondo il critico Bonito Oliva, “è il punto di incontro tra arte primitiva e tradizione europea”.
Già i cacciatori-raccoglitori erano passati da una riproduzione di cavalli a delle opere più astratte. Poi tutto si era fermato. Prima della prima guerra mondiale, invece, l’astrattismo assume un rilievo significativo. Siamo nella fase della piena industrializzazione, del motore a scoppio, di Freud, di Einstein, di Marie Curie: la voglia di futuro trova spazio nelle idee e nelle sue realizzazioni. In Italia l’astrattismo trova all’inizio interpreti come Giacomo Balla per poi arrivare a importanti interpreti come Alberto Burri e Lucio Fontana. Ad un certo punto sembra che l’arte sia fatta solo dall’astrattismo mentre il figurativo sia una cosa vecchia.
Massimo Recalcati, nel suo libro “Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti (Feltrinelli editore), ci offre un’interessante prospettiva per capire il senso dell’astrattismo: “Non è più l’opera d’arte che mima la realtà, ma è l’opera d’arte che realizza in se stessa, nella sua più radicale immanenza, una nuova realtà (…). Questo significa che l’opera non rappresenta altro se non se stessa; non è più il mondo che trova una raffigurazione nell’opera ma è l’opera che assorbe il mondo, che diviene un nuovo mondo”. L’astrattismo apre la voglia di creare qualcosa che va oltre il reale. E’ l’anticipazione della realtà virtuale che si è fatta via via segno indelebile con il web e tutte le sue derivazioni.
L’impreciso Van Gogh
Ma c’è una cosa che colpisce in questa rappresentazione del futuro.Negli ultimi anni vi è un forte ritorno del “figurativo”, in continuità con le radici dei grandi maestri dell’arte della realtà quali i fiamminghi, come Van Eyck. La mostra prodotta da Marco Goldin, e ospitata attualmente nella Basilica Palladiana di Vicenza, ha come protagonista Van Gogh. Nell’ultima sala sono inseriti sette quadri del pittore figurativo Matteo Massagrande, definito da alcuni critici “pittore del tempo e della luce”. Goldin chiama Massagrande a dare continuità visiva al “Canto dolente d’amore” di Van Gogh. Ma se la mostra ideata da Goldin è intima, innovativa e penetrante l’inserimento di Massagrande non si capisce fino in fondo. Massagrande fa della sua pittura la cifra proprio nella “figurazione” perfetta, senza sbavature, senza esitazioni. Tutto il contrario di Van Gogh.
Lo stesso Massagrande, in una recente intervista al Corriere della Sera, spiega questo ritorno di attenzione “con un intimo, diffuso bisogno di riconoscibilità”. Nell’astrattismo – sempre per Massagrande – si generano universi autoreferenziali o casuali: “L’artista deve avere senso dell’orientamento. E l’arte, una direzione. Non sapere dove andare può portare lontano; spesso, però, fa perdere il senso del viaggio. Quindi mancare l’obbiettivo”. Massagrande si inserisce perfettamente nella distinzione che Paolo Legrenzi, professore emerito di psicologia a Ca’ Foscari, compie nel suo ultimo libro “Regole e caso” quando individua due tipi di artisti: i lamarkiani e i darwiniani.
Per Legrenzi “uno è il modello lamarckiano, che s’ispira alla teoria dell’eredità di Lamarck. L’artista ha già in testa tutto il progetto e non fa altro che tradurlo nel materiale di cui sarà composta la sua opera, qualsiasi essa sia: scultura, pittura, design e architettura, invenzione di manufatti, e così via. L’altro modello di creatività è quello darwiniano: l’opera finita nasconde ai nostri occhi il processo per prove ed errori che ha avuto luogo durante la costruzione e la selezione dei gesti più adatti.” Massagrande risponde con la sua arte ad un bisogno di certezza; Pollock, attentamente indagato in “Regole e caso”, risponde ad un bisogno di incertezza della creazione. Chi ha ragione? L’arte non offre risposte così ovvie. Segue percorsi, comunque, poco razionali, ma questa rinata contrapposizione tra figurativo e astrattismo può essere l’indice di una società che alla voglia di futuro contemporaneamente contrappone la sua paura e il desiderio di rispondere a canoni certi. E si sa, come ci ha insegnato Nassim Taleb nel suo libro “Il cigno nero” (Il Saggiatore) il caso è dietro l’angolo, sempre.
Majorana ha capito Pollock
Certamente il futuro che abbiamo di fronte a noi è più simile ad un quadro di Pollock che di Massagrande. Oggi più che mai la realtà emerge dal caos delle possibilità. I quadri di Pollock sono costruiti con il dripping, quindi una fonte intrinseca di casualità, e ci mostrano un intreccio, come scrive Legrenzi, “tra la realtà finale del quadro e le possibilità via via scelte nella costruzione”. Massagrande sembra quasi rispondere a quel bisogno di certezza che l’algoritmo ci offre con la sua capacità riproduttiva perfetta del reale, mentre Pollock ci apre ad una dimensione di incertezza del reale.
Qualche mese fa il filosofo Giorgio Agamben ha dato alle stampe per i tipi di “Neri Pozza” un piccolo libro dal titolo emblematico “Che cos’è reale?”. Il libro, che si apre con la storia misteriosa della scomparsa del fisico Ettore Majorana, avvenuta il 25 marzo del 1938, si chiude con un suo articolo scritto per una rivista di sociologia. Si tratta di un articolo pubblicato postumo dove Majorana parte con raccontare come la scienza deterministica abbia cercato di ricondurre, anche i fenomeni più complicati, ad una visione meccanicistica della natura dove tutto l’universo risponde ad una legge inflessibile in cui il futuro è implicito al presente. Poi è arrivata una nuova concezione di fisica.
La meccanica quantistica ha destabilizzato il principio del determinismo perché, secondo Majorana: a) non esistono in natura leggi che esprimano una successione fatale di fenomeni; b) manca una oggettività nella descrizione dei fenomeni. Della serie: nulla è riconducibile ad un semplice meccanismo causale. L’uomo sta tentando di creare fuori da sé le basi di una fiducia tecnologica che preveda tutto; la natura, di cui l’uomo è solo una espressione, si muove su logiche diverse che sono costruite sull’incertezza. E’ una “battaglia” che la specie umana conduce per rimuovere le proprie imperfezioni, senza capire che proprio quelle imperfezioni sono la radice ontologica dell’uomo stesso.
Legrenzi, in questa “battaglia”, mostra come dentro Pollock ci sia la scoperta mentre dentro un artista contemporaneo ed osannato come Hirst ci sia semplicemente la ri-scoperta. Hirst ha in questi mesi in corso a Venezia una grande mostra ospitata a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, le case veneziane di monsieur Pinault, che racconta la storia dell’antico naufragio della grande nave ‘Unbelievable’. Un percorso che il critico Germano Celant giudica quasi un kolossal hollywoodiano dove “l’arte gareggia con la spettacolarità della cronaca”. Qui, più che futuro o passato, sembra la riproduzione del presente sensazionalistico. Come dire, meglio andare più spesso alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia per farci interrogare dalle opere di Pollock, piuttosto che al teatrino messo in scena da Hirst.
Artificare in azienda
Leggendo il libro di Legrenzi non può che venire alla mente un altro testo di una decina di anni fa: “L’emozione e la regola. La grande avventura dei gruppi creativi europei” (Bur Rizzoli). Lo ha scritto Domenico De Masi, compiendo un’indagine, collettiva, rivolta a interrogare tredici modelli classici tra Ottocento e Novecento, in cui si interrogava sui processi creativi allargati. Dalla casa Thonet al Bauhaus, dai poeti e letterati di Bloomsbury al circolo filosofico di Vienna, dall’Istituto Pasteur di Parigi ai ragazzi di via Panisperna a Roma al Progetto Manhattan degli esuli di Los Alamos. Osservare dall’interno questi straordinari episodi di creazione artistica, scientifica, letteraria, ci fa capire che il gruppo è molto più della somma dei singoli componenti e che l’uomo del ventunesimo secolo è il degno erede di quell’uomo europeo che “costruiva cattedrali e palazzi signorili, fondava monasteri e accademie, lasciava che la genialità filtrasse da libro a libro, da bottega a bottega”.
Hans Ulrich Obrist, uno dei più grandi curatori e critici, a proposito della capacità dell’arte di aiutare il mondo reale a ritrovare se stesso, diceva in una recente intervista a La Stampa: “Sarebbe stupendo che ogni azienda, anzi ogni grande ufficio, ospitasse un artista in residence. Si creerebbe una mappa culturale”. In passato spesso le aziende costruivano delle collezioni di arte per mostrare la loro forza e propensione al bello. Un mecenatismo utile ma fine a se stesso. Adesso l’arte può avere all’interno del mondo aziendale molte funzioni anche al di là delle mere funzioni di design. Progetti di questo tipo ve ne sono. Alcuni di molto interessanti come “Artificare”, promosso dall’Università Ca’ Foscari e IUAV, che ha lavorato con sette piccole medie aziende venete. In fondo, il destino delle aziende è sempre legato alle regole e al caso, come l’arte.
Titolo: Regole e caso
Autore: Paolo Legrenzi
Editore: Il Mulino
141 pp.; 12 Euro