Oltre ottantatré miliardi di capitalizzazione. È il “guadagno”, a Piazza Affari, delle mid cap dal luglio 2012. Cioè dal momento di maggiore crisi del listino italiano. Si tratta di una rimonta che, dall’angolo visuale della performance del paniere di riferimento, assume un valore segnaletico ancora più significativo. Il Ftse mid cap, infatti, è salito del 180,5% (chiusura al 18/1/2018). Un balzo notevole. Certo: l’incremento della capitalizzazione delle blue chip nostrane, nello stesso periodo, è stato di 279 miliardi. Ma il rialzo del Ftse Mib si ferma a quota 65,5%. In altre parole: le medie imprese italiane hanno sorpassato le sorelle maggiori. Un trend solo di lungo periodo? Tutt’altro. Analizzando archi temporali più brevi la dinamica è confermata. Dal 2015 il Ftse mid cap è aumentato del 76,5% mentre il paniere delle grandi capitalizzazioni è cresciuto del 24,3%. Quel Ftse Mib che, nell’ultimo anno, ha concretizzato un incremento del 22,07% rispetto al 34,1% delle mid cap.
L’effetto Pir. A fronte di un simile contesto la domanda è: perché questi andamenti? La risposta è articolata. In primis, soprattutto lo scorso anno, ha inciso l’effetto Pir. I Piani individuali di risparmio, va ricordato, devono indirizzare il 21% dei loro investimenti su strumenti finanziari di società italiane (o con stabile organizzazione nel Belpaese) che siano delle Pmi. È questo meccanismo che ha costituito il volano per le small e mid cap. Un flusso di liquidità che, da una parte, ha spinto le quotazioni delle aziende in oggetto; ma, dall’altra, induce alcuni esperti a rimarcare il rischio-boomerang. Certo: la durata minima dell’investimento, affinchè il retail non perda i benefici fiscali, è 5 anni. Un periodo non breve. E, però, il picco d’investimenti in Italia sui Pir si è avuto con i loro lancio nel 2017. Il timore è che, da un lato, questa particolare benzina per il motore delle mid cap diminuisca. E, dall’altro, che allo scadere dei 5 anni possa esserci il deflusso degli investimenti e l’indebolimento dei prezzi. Lo scenario descritto è contrastato da altri analisti. Il ragionamento è il seguente: i risparmiatori non si “impegnano” tutti allo stesso istante. C’è una gradualità nel loro d’approccio. In Francia, dove strumenti simili sono stati introdotti alcuni anni fa, «l’indice delle mid cap – ricorda Massimo Saitta, direttore investimenti di Intermonte Advisory – ha multipli maggiori rispetto a quelli dei corrispondenti panieri di altre Borse europee». La dimostrazione che «l’investimento non è estemporaneo, bensì è progressivo ed ha una sua persistenza nel tempo».
Istituzionali e algo trader. Ma non è solo questione di Pir. È rilevante la stessa strategia dei grandi investitori istituzionali (soprattutto stranieri). Questi per esporsi all’azionario italiano, non di rado acquistano solamente le grandi capitalizzazioni. Oppure gli Etf che replicano l’indice delle blue chip. In un simile contesto le eventuali vendite, in particolare per i timori sui titoli bancari (proxy del rischio-Paese), colpiscono il Ftse Mib. Le altre azioni, al contrario, vengono “dimenticate”. Una condizione di abbandono che, paradossalmente, risulta positiva. Anche perchè la situazione si replica, in qualche modo, con gli investitori automatici. Gli algo trader, non guardando ai fondamentali, spesso usano i derivati sugli indici. Soprattutto quelli più liquidi quali, ad esempio, il Fib (derivato sul Ftse Mib). Risultato? I titoli “minori”, da un lato, rimangono di nuovo fuori dal radar; e, dall’altro, hanno più spazio per dribblare le eventuali cadute. Crolli magari dovuti proprio alle strategie dei grandi investitori istituzionali.
I fondamentali. Fin qui alcune considerazioni su variabili “tecniche” che agevolano le piccole e medie società in Borsa. E, però, ci sono anche le motivazioni legate ai fondamentali delle stesse. Ai bilanci con ricavi e redditività in rialzo. «Si tratta di realtà- afferma Andrea Carzana, gestore azionario europa di Columbia Threadneedle investments – che spesso, da una parte, hanno fatto della diversificazione internazionale il “must” del loro business», e, dall’altra, sono state in grado di «diventare leader di mercato con un marchio forte e riconoscibile».
Così, ad esempio, può ricordarsi la «pattuglia» delle aziende meccaniche: da Interpump (pompe e prese di forza) a Biesse, attiva nelle macchine per la lavorazione del legno, fino ad Ima (macchine per packaging). Senza dimenticare, poi, le realtà tecnologiche. Tra le altre: Prima Industrie (laser) o le stesse Engineering e Reply (system integrator). Oppure, ancora, le matite di Fila o i gas tecnici di Sol.
La governance. L’elenco, a ben vedere, potrebbe continuare. Tuttavia c’è un altro “appeal” da sottolinearsi. «In queste aziende – riprende Saitta – l’imprenditore di frequente è anche manager. Una situazione dove l’interesse dell’azionista di maggioranza converge con quelli delle minorities». Una condizione che piace al mercato. Ciò detto, però, la governance basata sul modello famigliare spesso ha creato danni. «Vero. Tuttavia ciò accade soprattutto nelle grandi società. In quelle più piccole, quotate, l’obbligo a maggiore trasparenza e al confronto con gli investitori spesso fa risaltare le virtù del capitalismo famigliare».