Adesso dirlo è facile. Con il Pil tornato a salire come non accadeva dal 2010, anche se non abbiamo ancora recuperato i livelli pre-crisi e restiamo sempre i più lenti d’Europa, è banale ripetere quale sia l’equazione. Cresce il Paese perché cresce il suo sistema industriale. Le poche grandi aziende, le tante medie e piccole.
Il viaggio
Quello che non è affatto scontato è scoprire che tra le medie e piccole – l’ossatura del manifatturiero e dunque dell’economia italiana – c’è una sorta di Champions League fatta di nomi ai più sconosciuti ma il cui biglietto da visita sono numeri da capogiro: i fatturati classificheranno anche queste imprese nella categoria «bonsai», ma chi le guida è gente capace di far salire ogni anno il giro d’affari a ritmi abbondantemente a due cifre, di tirar fuori profitti industriali lordi che in più di un caso vanno persino oltre il 40% dei ricavi, di prendere i ricchi utili netti e rimetterli al servizio dell’azienda. La crescita finanzia altra crescita, così, e senza alcun bisogno di ricorrere a prestiti. Anzi: questi signori e signore (tante) sono tutti liquidissimi (e spesso delle banche diffidano, il che dovrebbe far riflettere).
Sarebbe già sufficiente, a sintetizzare in un flash il viaggio fatto da L’Economia con ItalyPost (articolo alla pagina successiva) alla ricerca dei «campioni dei campioni». È un viaggio che inizia oggi, proseguirà per un mese, si concluderà con un numero speciale che verrà presentato in Borsa il 16 marzo e sarà distribuito gratis in edicola: il giorno in cui L’Economia festeggerà il suo primo anno in case e uffici dei lettori del Corriere. Ci saranno questi e altri protagonisti delle storie raccontate in dodici mesi (o da raccontare nelle settimane che verranno) con l’obiettivo di dare un volto all’Italia che sa costruire il futuro. E qui sta il punto chiave del dossier sui 500 Champions. Non ha solo selezionato la Super League delle piccole e medie imprese, le 500 aziende top di una classifica dalla base larghissima (in totale, le Pmi intese come società di capitali con un fatturato 20-120 milioni sono 14.632). Poiché i requisiti di «ammissione al vertice» sono strettissimi e l’esame parte dal 2010, l’equazione «crescita=imprese» può essere letta in tutte le sue sfumature. Nel senso che sì: vale ora, nel pieno di una ripresa di cui tutti si avvantaggiano. Ma ieri? Quando la crisi bruciava ricavi e capitali e insieme alle aziende era il Pil, ad andare a picco? Avremmo dovuto ribaltare il concetto?
Sì. No. Forse. Meglio ribaltare il punto di vista. Se oggi, pur ultimi, siamo tornati a crescere e anche noi infiliamo il buon vento internazionale, magari il merito è un po’ (o tanto) di questi piccoli imprenditori che dalla crisi non si sono fatti impressionare. Hanno continuato a svilupparsi, a investire, e sì: a macinare utili (e cassa). Non importa – al contrario: è in qualche modo una lezione – che lavorino in settori maturi come, per dire, l’alimentare: Daniele Ferrero, in quel 2010-2016 che ha preso in pieno la Grande Crisi, ha raddoppiato il giro d’affari del cioccolato Venchi e ci ha ricavato in media, negli ultimi tre anni, profitti industriali lordi pari al 23%. Performance che si ritrovano tra alcuni produttori di farine, per citare il più tradizionale dei comparti, e che non hanno nulla da invidiare all’innovazione hi-tech (vedi pagina successiva) o classica (gli yacht di lusso prodotti dalla Absolute, o quelli che il mondo affida a Luigi Alberto Amico perché li ristrutturi).
I numeri
Si potrebbe continuare. Lo faremo, nelle prossime settimane. Per ora mettiamo insieme i numeri di queste 500 piccole-medie imprese top, che spesso sfuggono persino ai venture capitalist, e cominciamo col dire che il loro aggregato tanto piccolo non è. Fossero un unico gruppo, vedremmo un fatturato di quasi 22 miliardi (21,7, +13% medio annuo negli ultimi sei anni) e profitti industriali lordi pari al 19% (media dell’ultimo triennio). Per «generare futuro», tra il 2010 e il 2016 quel gruppo avrebbe investito in se stesso (dunque nell’economia reale) qualcosa come 11 miliardi. E li avrebbe finanziati in massima parte da un monte-utili che rivela a un rendimento medio del capitale vicino al 20% (19,53%). Anche negli anni della lunghissima crisi post Lehman.
Un unico gruppo, però, non c’è. Ci sono tanti singoli campioni, in tanti settori diversi, senza alcun collegamento se non il dinamismo, l’eccellenza, il tipo di proprietà: sono tutte aziende familiari, da più generazioni o da una soltanto, e tutte a puro controllo italiano. Può essere un limite (la tipologia familiare, non l’italianità), e ne parleremo. Fin qui è comunque la forza di questa Super League che peraltro, per molti aspetti, manda in soffitta i vecchi modelli pre-crisi. Se i Champions crescono e guadagnano è, anche, perché non si curano di cliché, stereotipi, retoriche, riflettori. Ma è un equilibrio delicato. Ed è il sistema-Paese – di cui loro sembrano aver fatto a meno – che deve fare attenzione a non romperlo.