Passata la competizione elettorale che surriscalda interessi e territori verso la bolla calda della sovrastruttura politica, torno a raccontare del fare impresa. Immergendomi nei dati e nei ragionamenti provenienti dal Nord-Est di Filiberto Zovico. Da anni con sussurri da Microcosmi con VeneziePost ci informa su quel che avviene nelle Venezie. Definizione che tradisce la nostalgia della dominante Venezia, tant’è che, partendo da Venezia come parco a tema anni fa aveva lanciato l’idea di fare del Nord-Est la Capitale europea della Cultura. Cultura di un territorio manifatturiero, da noi studiato ai tempi del capitalismo molecolare dei distretti, dove si organizzano momenti topici di riflessione con festival Città-Imprese, organizzando le domeniche delle imprese aperte con il loro orgoglio del fare sino a interrogarsi con una Green Week peripatetica sulla green economy.
Sussurri che si son fatti racconto di uno spazio di posizione del produrre che fa rappresentazione del fare impresa che, una volta, ci faceva guardare a Torino e nello stesso tempo ne fa un racconto diverso dello storytelling di Milano nodo di rete nelle città globali. Per questo, partendo dal suo lavoro “Nuove Imprese – Chi sono i champions che competono con le global companies” Egea, ci si inoltra nelle 500 imprese da lui raccontate con «provocazione nordestina» del capitalismo intermedio. Non ci sono grandi gruppi, ciò che resta a Torino o a Monfalcone, né le multinazionali tascabili fatte da medie imprese censite da Mediobanca. I 500 campioni sono da lui definiti «grandi imprese artigiane iper tecnologiche». Sono capitalismo intermedio perché si posiziona e denota ciò che sta in mezzo ai processi di polarizzazione, alla frattura tra le punte alte dell’innovazione dei flussi e le tendenze regressive del sommerso carsico. Un capitalismo né liquido, con i suoi algoritmi, né rigido e centralizzato.Postfordista nella dimensione, da qui l’ossimoro grande impresa artigiana, ma da Impresa 4.0 che tiene assieme algoritmo e manifattura. Relativamente piccole nei fatturati tra i 20 e 120 milioni, grandi nella redditività 20%, con crescita annua del 7% hanno reinvestito nell’impresa negli ultimi tre anni 7,3 miliardi.
Sfuggono come il mercurio alla classificazione, sono grandi, piccole o medie? Non so rispondere se non definendole come i più grandi dei piccoli. Grandi nella loro capacità di star dentro la crisi dei distretti e uscirne, quando il distretto si è rotto nel suo essere comunità locale del produrre, agganciandosi al divenire distretto-piattaforma connessa alle reti logistiche e di innovazione disegnando filiere globali. Infatti i campioni, scartando di lato hanno evitato il baratro del distretto sommerso e sono in filiere globali da artigiani di eccellenza. Hanno scartato di lato anche rispetto al localismo bancario delle crisi a Nord-Est in un fai da te che guarda più alla cassa e alla remuneratività che ai mutui, usando le banche solo come reti lunghe per l’internazionalizzazione. Con uno strano destino nella finanziarizzazione dell’economia, l’essere cercati come clienti corporate per la redditività ed essere esposti al rischio delle acquisizioni estere nel loro diventare artigiani eccellenti di una filiera globale. Il senso del libro di Zovico pare dire che il gene egoista dell’impresa pare aver individuato una strada per attraversare la crisi. Appare una mappa territorializzata delle 500 imprese da rapportare alle lunghe derive dello sviluppo. Il che è utile per capire. Il traino è lombardo-veneto: 142 in Lombardia, 99 in Veneto, 73 in Emilia con la sua motor valley più numerosa delle 55 in Piemonte. Là dove, Beccattini, Fuà, De Rita a Prato, hanno raccontato l’epopea dei distretti, sono solo 37 in Toscana e 14 nelle Marche. A sud con tanto di industrializzazione fordista e Patti Territoriali per agganciarsi ai distretti sono solo 22 in Campania, sette in Puglia e due in Sicilia.
Certo una mappa parziale di numeri e casi di impresa da sovrapporre allo sviluppo territoriale. Ma così facendo lo sguardo mi è caduto sulla mappa recente della geografia elettorale con il blu al Nord, il giallo forte al Sud e diffuso e penetrante al Centro, dove restano macchie di rosso tenue. È sempre sbagliato applicare alle dinamiche politiche l’antico adagio struttura produttiva e sovrastruttura politica. Soprattutto oggi che la composizione sociale che sta in mezzo, dei lavori e dell’intraprendere, non è solo liquida ma si è fatta particelle di mercurio. Ci vorrebbe l’alchimista per capire. Ma alcuni interrogativi questa mappa li pone. Il primo è evocativo geograficamente di una Baviera al nord e di una Grecia al sud a proposito dei confini tra l’Europa del burro e l’Europa dell’olio. La seconda sta in due numeri da forbice aperta delle imprese, 22 miliardi di fatturato che in tutto producono solo 77mila addetti.
In mezzo, se non si chiude la forbice sta il deserto dei lavori, anche se per paradosso, sono queste le imprese che raccontano che non hanno bisogno di manager ma di nuove figure tecniche che non trovano, non più formate dal ciclo scuola-università. Vorrebbero giovani in grado di essere gli smanettoni della manifattura. Sono imprese che più che radicate nel territorio vi sono ancorate e chiedono piattaforme territoriali che siano porti e interporti in grado di velocizzare scambi di dati, di saperi e di merci. Anche l’adesione alle rappresentanze e ai loro servizi è selettiva, non bastano più le reti corte, si aderisce a chi offre le reti lunghe per salpare.
Infine, sempre guardando alle lunghe derive dello sviluppo appare chiaro la rottura di un ciclo inclusivo fatto da grandi e medie imprese e da distretti diffusi. Il problema non è dentro le imprese che hanno imparato la strada del produrre per competere. Il nodo socio-politico è ciò che resta fuori dalle imprese, nei distretti del sommerso carsico e rancoroso e dei tanti che sono solo nella gig economy dei lavoretti. Il problema sociale e politico è ciò che resta.