Niente gufi. Chapeau al ministro Luigi Di Maio che, dopo la diffusione giovedì scorso delle (crude) previsioni di Confindustria sul Pil, ha corretto Matteo Salvini sostenendo che non esistono gufi ma solo la dura realtà dei problemi e la necessaria individuazione delle soluzioni. Prendendo coraggio da questa dimostrazione di onestà intellettuale, mi permetto di sottoporre a Di Maio, nella sua veste di ministro dello Sviluppo e del Lavoro, alcuni dubbi e persino dei modesti suggerimenti.
1) Il ministero dello Sviluppo
Arrivato nella prestigiosa sede del dicastero di Via Veneto il ministro ha sostanzialmente rivoluzionato l’organigramma, dando vita a quello che i suoi critici hanno definito «un balletto» delle dirigenze e delle responsabilità. Ha spostato quasi tutti i direttori generali in altre caselle e ha promesso a giugno di rifare in toto l’organigramma del ministero. In linea di principio tutto ciò rientra nei poteri del ministro e niente da obiettare, dunque. Nel merito però visto che cosa è successo in questi mesi al Mise saremmo più cauti. Sono uscite infatti sicure competenze e sono entrati nuovi protagonisti, molto vicini al ministro, e che potremmo definire più come consiglieri politici che tecnici del settore. Tutto ciò ha già indebolito il ministero e quindi il suggerimento è quantomeno quello di ripensarci. La rivoluzione dell’organigramma promessa ha un suo fil rouge? Non rischia di scombussolare ancor di più questo pezzo di dirigenza pubblica?
2) L’innovazione
Il ministro ha creato due commissioni che lavorano sui temi della blockchain e dell’intelligenza artificiale. Niente da dire e ne valuteremo l’impatto a fine percorso. I dubbi riguardano caso mai altro: perché Di Maio ha messo in contrapposizione evidente queste iniziative con il proseguimento del piano Industria 4.0? È vero che la sua visione corrisponde molto a quella di Davide Casaleggio e alla tendenza tecnologica benaltrista dei 5 Stelle che dicono «no alla Tav, sì all’Hyperloop», ma tutto può essere rimesso in discussione. Industria 4.0 non può rimanere un’incompiuta, non basta accompagnare e stimolare gli investimenti in innovazione bisogna poi seguire tutto il percorso e implementare la digitalizzazione delle imprese italiane. Non solo macchine, ma processi di nuova generazione. Invece il nuovo Mise ha prima cancellato il superammortamento e poi lo vuole reintrodurre, ma ha caricato questa scelte di una vuota retorica pro-Pmi che ha poco senso. Il piano 4.0 non si può tagliare a fette e distribuirlo secondo la dimensione delle imprese. Va monitorato e ristimolato, la strada è lunga.
3) L’automotive
Si ha l’impressione che il ministro stia sottovalutando la crisi dell’automotive che ha un combinato disposto «perverso» ovvero stagnazione della domanda unita a incertezza dei consumatori di fronte alla transizione tecnologica verso l’elettrico (che non ha un timing chiaro). Pesano poi sul settore la crisi tedesca e le disavventure del diesel, a dimostrazione di come l’integrazione delle nostre imprese di fornitura nelle catene del valore europee sia ormai a uno stadio molto avanzato. Di Maio ha pensato di affrontare tutto ciò con il provvedimento dell’ecobonus che è stato bocciato non solo dagli industriali ma anche dai sindacati perché nella sostanza “masochista”. Invece di pescare misure a caso, sarebbe forse necessario che il Mise si dotasse di una bussola per la crisi dell’automotive ed elaborasse di conseguenza una politica industriale di sicuro impatto. È troppo avanzare questa richiesta?
4) Le crisi aziendali
La scelta che Di Maio ha fatto sin da subito è stata quella di politicizzare le crisi aziendali, da tavoli tecnici e tavoli del consenso politico. Non è stata una scelta fortunata, visto che in diversi casi gli interlocutori sono timorosi che loro scelte possano essere piegate ad altri obiettivi. La forza del Mise in questi casi è di essere un soggetto terzo che interviene laddove le parti non hanno saputo gestire la vertenza o non hanno gli strumenti per farlo. Si può cambiare rotta e lo si deve fare perché urgono risposte non solo per l’Alitalia, ma per la siderurgia, le costruzioni e persino la grande distribuzione. Come si può pensare di politicizzare tutti gli input necessari a governare queste transizioni?
5) L’export
In virtù dell’attivismo del sottosegretario Geraci le nostre politiche per l’export hanno subito una reductio ad unum: la Cina. Non è questa la sede per prendere in esame l’Operazione Arance Rosse, ma complessivamente il ministero non ha un sufficiente monitoraggio di cosa stia avvenendo per il nostro export sui mercati più importanti per noi (Usa e Ue) alle prese con discontinuità regolatorie che non potevamo immaginare. Ergo, dire che il nostro è un volo cieco nel caos dei dazi e delle tariffe evocherà forse il mito di Cassandra, ma è purtroppo l’amara verità.