Lezioni di Champion(ship). Non che siano loro, imprenditori tanto di successo quanto, spesso, sconosciuti al Paese, a mettersi in cattedra. Devi andare a cercarli in azienda, quando non sono in giro per il mondo, e non sono abituati né all’attenzione dei media né a sentirsi definire a quel modo. Campioni? Grazie, ti rispondono, ma siete sicuri? Lo sono i vostri bilanci, spieghi: se per sei anni di fila fatturato, utili, investimenti, capacità di autofinanziamento crescono a doppia cifra o comunque a ritmi record, l’exploit casuale che brucia in fretta si può escludere, e accanto alla parola «risultati» l’aggettivo «straordinari» è obiettivamente a prova di enfasi pubblicitaria. Non servirebbe neppure, con medie che raccontano di dimensioni quasi raddoppiate tra gli esercizi 2012 e 2018, o di utili industriali che sembrano quelli dei brand del lusso. E in un arco di tempo che include, sì, un paio d’anni di ripresa dalla Grande Crisi, ma anche la coda velenosa di quella perfetta tempesta globale. E il ritorno alla stagnazione. E la paura che sia solo l’anticipo di una nuova recessione.
Teste di serie
Ecco. Il nuovo viaggio nell’Industria Italia avviato da «L’Economia» del «Corriere della Sera» insieme all’ufficio studi di «ItalyPost», ruota attorno a tutto questo. Aiuta a capire le ragioni dei successi, e insieme a trovare le contraddizioni che impediscono al Paese di moltiplicarli. Si aggiunge alla ricerca delle (e sulle) aziende Champions, che riprenderemo a inizio 2020 ed è ormai alla terza edizione, e in parte ha lo stesso obiettivo: scoprire, e poi far parlare, le piccole-grandi eccellenze che l’Italia non conosce e non sa «usare», pur se sono quelle le realtà che ci consentono di correre quando c’è una ripresa da agganciare e di tener botta quando invece (molto più spesso) a soffiare sono venti gelidi. Non è un’analisi-doppione, però. Questa volta, le piccole e medie imprese Champions siamo andati a selezionarle all’interno dei settori Champions. Trenta aziende, ovviamente le migliori, per ciascuno dei quattro comparti (metalmeccanica, chimica-farmaceutica, sistema moda-tessile, agroalimentare) che sono la forza della nostra economia, del nostro export, della reputazione globale di un «made in» unico. Unico perché non è solo design, stile, buon cibo, vini eccellenti. È tecnologia e innovazione, Sono case farmaceutiche che Big Pharma comprerebbe (se fossero in vendita). È la capacità di produrre macchine utensili (per esempio) che persino i tedeschi ci invidiano: in quella che continuiamo a chiamare industria meccanica, e invece è già avanzatissima meccatronica, abbiamo forse ancor meno rivali di quanti ne abbiano i nostri più celebrati stilisti.
La meccanica è pesante
Poiché questo è, tra l’altro, il settore di maggior traino dell’intera economia e i suoi indicatori sono solitamente i primi anticipatori dei trend, l’analisi-reportage dentro «Industria Italia» non può che partire da qui. Le storie dei primi 30 Top Performer sono una lezione in sé. Appartengono a un comparto che dà quasi il 50% del valore aggiunto, ovvero della ricchezza prodotta dall’intera industria manifatturiera. Su tutta l’economia nazionale questo «peso» arriva all’8%, e con un fortissimo contributo alla nostra bilancia commerciale: il 47,7% dell’export viene dal comparto, e ci porta un saldo attivo di 60 miliardi. Ancora: anche ora che le fabbriche Fiat si sono in gran parte svuotate, l’universo metalmeccanico resta il primo datore di lavoro del Paese. Più di un milione e mezzo di occupati.
Effetto automotive
È chiaro, perché una crisi qui preoccupi più che in qualsiasi altro settore. E crisi è, adesso. Da un anno almeno. L’automotive è crollato, altre produzioni limitano i danni al «livello stagnazione», ma insomma questo è il quadro. Poi, però, uno prende l’analisi da cui ItalyPost (con il contributo del gruppo Crédit Agricole e di Auxielle, su dati forniti da Bureau Van Djck) ha estratto i trenta Champions tra le imprese fino a mezzo miliardo di fatturato e scopre che: sono cresciuti in media del 10,42% l’anno tra il 2012 e il 2018, mentre il comparto non è andato oltre il 2%; negli ultimi tre esercizi hanno realizzato utili industriali pari al 15,6% dei ricavi, cioè più del doppio del 7,6% medio del settore; sono finanziariamente e patrimonialmente solidi. I loro nomi non dicono granché, al di fuori del giro degli addetti ai lavori, ma in fondo uno dei punti è proprio questo: che cosa le distingue dalle altre migliaia di piccole e medie e imprese (e anche dalle grandi, a volte), che fanno lo stesso mestiere ma non ottengono gli stessi risultati? Lo hanno raccontato direttamente loro. Per chiudere da dove abbiamo cominciato: non per mettersi cattedra, semplicemente per testimoniare che «si può». Sperando che, per una volta, ad ascoltare ci sia magari chi ha le leve della politica industriale (se ci fosse, una politica industriale).
*L’Economia, 4 novembre 2019